LA UMBRELLA CONTRO MILLA JOVOVICH IN RESIDENT EVIL

LA UMBRELLA CONTRO MILLA JOVOVICH IN RESIDENT EVIL

La Umbrella, il T-Virus, la villa nel bosco… insomma Resident Evil. Il film del 2002 ce lo ricordiamo tutti, no? Tant’è che qualche tempo fa abbiamo buttato pure l’occhio ai romanzi scritti da S.D. Perry. Resident Evil è un videogioco che ha fatto storia. Pieno di alti e bassi sicuramente, ma che tuttora continua a infognare un sacco di gente. Poi, nel bel mezzo del cammin di nostra vita, è arrivato lui: Paul W.S. Anderson. Il quale, dopo Punto di non Ritorno e Soldier, se n’è uscito col film. Si è occupato del soggetto, della sceneggiatura, della regia. Ci ha perfino cacciato i soldi come produttore. Un vero one man army.

Nel film con Eddie Murphy Il Bambino d’oro, Victor Wong ha una battuta che conosco a memoria: “Questi splendidi americani! Così tanto potere nelle loro mani, e così poca consapevolezza nell’usarlo”. A me brilla in testa come una insegna al neon ogni volta che vedo certi film. Film come quelli di Paul W.S. Anderson, per intenderci. Perché sono proprio gli statunitensi e la loro industria cinematografica ad avere ogni mezzo a disposizione. Dal denaro alle tecnologie. E nonostante questo sono capaci di uscirsene con robe come questa.

LA UMBRELLA CONTRO MILLA JOVOVICH IN RESIDENT EVIL

Nel film vediamo che, agli inizi del XXI° secolo, il colosso aziendale Umbrella Corporation detta legge su tutti i fronti. Nove persone su dieci utilizza un suo prodotto.
Siamo a Raccoon City, una simpatica e ridente, quanto immaginaria e stereotipata, cittadina del midwest americano. Nonché sede centrale della Umbrella, che fornisce oltre tre quarti dei posti di lavoro della città.

LA UMBRELLA CONTRO MILLA JOVOVICH IN RESIDENT EVIL

Scatta l’immancabile villanìa: sotto Raccoon City, la Umbrella ha costruito un gigantesco laboratorio segreto chiamato L’Alveare, in cui conduce esperimenti illegali nei campi della batteriologia e dell’ingegneria genetica. Segue “incidente” causato ad hoc: fuga di virus letale. Sistema di “sicurezza” che entra in funzione, et voilà!, gli impiegati dell’Alveare sono belli che morti.

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Alcune ore dopo, in una villa sperduta nei boschi intorno la città, vediamo Alice (Milla Jovovich), che si risveglia senza memoria dalla doccia in cui si era accasciata. Confusa e stordita, inizia a vagare per l’enorme magione cercando di ricordare qualcosa. Magari se aveva chiuso il gas e spento il forno.

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Mentre la nostra tenta di fare mente locale, a sorpresa viene aggredita da Matt, finto poliziotto per hobby e ambientalista (sul serio!?) di professione. Neanche il tempo di dare due schiaffi, che ancor più all’improvviso nella villa fa irruzione un gruppo di soldati alla G.I. Joe, il cui capo ci delizia con un bellissimo spiegone.

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In cinque minuti ecco che ci viene riassunta l’intera faccenda: la villa in cui Alice vagava senza ricordo è in realtà una delle due entrate per L’Alveare. I “G.I. Joe” sono stati inviati qui dalla Umbrella con l’ordine di disattivare La Regina Rossa, il computer centrale che gestisce la baracca. Perché, a quanto pare, è “impazzita” uccidendo i dipendenti e sigillando tutto. Ah! Per arrivare all’Alveare c’è un treno sotterraneo che parte dalla villa. In un vagone si imbattono in Spence, un tizio svenuto che, come Alice, non ha il minimo ricordo di quanto sia successo e del perché si trovi lì.

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Arrivati all’Alveare, dopo il consueto girovagare giusto per allungare il minutaggio del film, il gruppo arriva alle porte della sala centrale in cui si trova la Regina Rossa. Qui si imbattono nel sistema di difesa del potente computer, ovvero un corridoio percorso da una griglia laser “intelligente”. Nel tentativo di superarlo, il capo e altri tre tizi della squadra rimangono uccisi.

Alice e un altro soldato che stava a smanettare vicino al quadro comandi riescono invece a superare la trappola, arrivano alla sala del computer e lo disattivano. Solo che, sorpresa!, il computer non è che fosse veramente impazzito. In realtà, avendo avvertita la fuga di sostanze tossiche, in questo caso il famigerato T-Virus, aveva sigillato tutto per impedirne la diffusione all’esterno. Disattivandola, sbloccano tutti i sistemi di sicurezza e, così facendo, i nostri vengono a sapere anche quale sia il “potenziale” reale del T-Virus: riportare in vita i morti.

Da questo punto in poi c’è il classico “fuggi fuggi”. Chi va di qua e chi di là. Però c’è un’altra sorpresa: Alice si ritrova circondata da alcuni cani-zombie e, incredibilmente, li abbatte con alcune super-mosse-uattà!-volanti, scoprendo così di avere delle incredibili capacità. Un po’ come il principe Adam che solleva la spada e scopre di potersi trasformare in He-Man.

Veniamo pure a sapere di Matt e della sua professione di ambientalista, che si trovava lì per cercare la sorella infiltratasi (ma dai!) nell’Alveare alla ricerca di prove per denunciare la Umbrella. A ‘sto punto non c’è molto altro da dire, perciò arriviamo alla domanda cruciale: com’è Resident Evil?

Un’assurda baracconata, ecco com’è. Non sono uno di quei fanatici che si fanno prendere dall’isteria se gli cambi il prodotto a cui sono affezionati. Però stiamo parlando di un adattamento, giusto? Allora, un conto è prendersi delle libertà. Altro paio di maniche è prendere un soggetto e, anziché apportare migliorie (se necessario), lo si sviluppa alla cazzomannaggia.

La trama originale del videogame affonda a mani basse in una caterva di b-movie anni ottanta. Molto sommariamente, dopo una sequela di brutali omicidi nei boschi intorno la città, viene mandata una squadra speciale per investigare. Inizialmente trova rifugio in una magione disabitata nel fitto dei boschi. In un secondo tempo si scopre che la struttura, di proprietà della Umbrella, serviva come copertura a un laboratorio segreto in cui venivano condotti esperimenti illegali su esseri umani.

Si tratta di una storia lineare, vero. Però non manca di momenti topici, di un intreccio e, soprattutto, il fulcro della vicenda è sopravvivere alle creature che ti si parano davanti. Tradotto in termini cinematografici, parliamo del sottogenere “sopravvivi e resisti all’orda”. Cosa abbastanza duttile e funzionale come film, sia come videogame. Ora, è abusatissimo come escamotage? Sì. Non è funzionale? Assolutamente no.


Io non posso credere che partendo dal videogame, il cui soggetto si ispira al cinema di genere, adattandolo per realizzare un film si possa fare peggio. Nella loro assurdità, le sequenze del videogame sono di gran lunga più credibili rispetto a questo film. Innanzitutto il “laboratorio segreto” della Umbrella, nel gioco, si trova in una struttura nascosta dove lavora lo stretto necessario del personale scientifico.

Nel film, invece, è una struttura megalitica grande quanto l’intera città, in cui lavorano centinaia di persone, tra scienziati, segretarie, impiegatucoli e via dicendo. Ha un minimo di senso questa cosa, per essere chiamata “laboratorio segreto”? Se ti chiami Boss Artiglio o Dottor Male, probabilmente sì. Nel resto dei casi no.

Se la storia viene completamente spiegata nei primi dieci minuti di film, togliendo ogni possibile sorpresa, arrivano pure i personaggi a peggiorare le cose. Ridicoli, piatti, tristemente banali. Le cui interazioni si riducono a semplici esclamazioni, comandi o spiegazioni.

Prendiamo Alice, il personaggio interpretato da Milla Jovovich. Voglio pure capire che Anderson le stava a fa’ il filo (buon per te che poi te la sei sposata). Però ciò non giustifica il fatto che tu le cucia addosso un ruolo simile. Dai, le super mosse e i super poteri che man mano le fai sviluppare, ma per cortesia e che cos’è? E su, siamo seri.

Mi chiedo perché chiamare il film “Resident Evil” se, a parte alcuni nomi protetti da copyright, non c’è nulla del videogame di Resident Evil. Magari sarebbe stato più appropriato chiamarlo “L’infezione”. Oppure “La scusa più costosa mai usata per attacca’ bottone con ‘na tizia”.

Un po’ come se decidessi di fare un film su Re Artù senza Camelot, la Tavola rotonda, e neppure lo stesso Artù, Ginevra e Lancillotto. L’unica cosa che metto, giusto come “contentino” di richiamo, sono la spada Excalibur e il mago Merlino, cioè una pistola e un “gangsta rapper” di colore.

Qui si trascende dal concetto di “basato su” o di “tie-in”, semplicemente perché:
A) questo è un prodotto totalmente fuori contesto a ciò che dice di ispirarsi
B) è un brutto film a priori, anche senza tenere conto delle cose elencate.

Detto questo, credo sia tutto.

Stay Tuned, ma soprattutto Stay Retro.

 

 

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