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TOTÒ A PRESCINDERE - GIORNALE POP -
Quando un personaggio supera la soglia delle generazioni, quando riesce a rapire allo stesso modo giovani e vecchi, dotti e ignoranti, cittadini e paesani, diventa immortale, diventa… Totò! Ogni singola battuta, ogni respiro, ogni gesto, ogni espressione: tutto concorre alla nascita del mito, perché tutto si incastona alla perfezione in questo lucente gioiello di oro zecchino! Lasciamo a biografi attenti e documentati la descrizione dei soliti dettagli, più o meno interessanti, sulla vita di De Curtis, sulla sua ricerca affannosa e superflua di un attestato di nobiltà e analizziamo ciò che conta veramente, la maschera dietro l’uomo, il burattino senza fili, prigioniero e al tempo stesso dominatore del suo rutilante mondo di luci e di suoni. Totò è più di un comico, è “qualcosa” che trascende le normali distinzioni di genere, sa essere drammaticamente comico e comicamente drammatico. È il principio assoluto della “vis” interpretativa, colui che riesce a toccare tutte le corde del cuore devastandole con la violenza di un maglio o sfiorandole con la delicatezza della seta. Sa essere povero e ricco, galantuomo e cialtrone, sempre pronto allo sberleffo dissacratorio, al gesto a volte anche “volgare” nell’accezione più etimologicamente nobile del termine, perché è un figlio di poveri che si atteggia a ricco o forse un figlio di ricchi che ha conosciuto molto bene la povertà. Questo è un dualismo irrisolvibile che si riverbera continuamente nei suoi film, nei quali si scontra continuamente le sua anima meditativa, e in fondo pusillanime di De Curtis, con l’anima pagliacciona e travolgente di Totò. Come in un metaforico Giro d’Italia ciclistico, la carriera di Totò si dipana attraverso tappe successive con un ritmo incalzante e mozzafiato. Gli inizi sono tiepidi, guidato da registi sconosciuti Totò risente della mancanza di uno stile ben delineato. È il Totò saltellante e scombinato di “Fermo con le Mani” (1937), di “Animali Pazzi” (1939), di “Totò nella fossa dei Leoni” (1943). Brillano, però, anche in questo periodo oscuro, alcune interpretazioni promettenti come quella di Agostino Miciacio, portiere e ciabattino seminfermo di mente di “San Giovanni Decollato” (1940) e i primi personaggi multipli (i figli della cavallerizza ne “L’Allegro Fantasma” del 1941) che diventeranno uno dei pezzi dl repertorio dell’attore. Infine, la bomba innescata esplode in un fragore di risate: è la “golden age” di Totò, durante la quale inanella una serie impressionante di successi commerciali che ne fanno un vero principe… degli incassi. Totò si mette in cerca di moglie, casa e pace, partecipa al Giro d’Italia, diventa Tarzan e Le Mokò, sceicco ed arpagone. Non si tratta di pellicole eccelse. Soggetti e sceneggiature sono tirati via alla meglio, ma la debole struttura poggia su una base solidissima: l’Arte di Totò. Il successo economico, come spesso succede, dà fastidio e la critica specializzata si schiera compatta contro di lui: “È un guitto! Una macchinetta a gettoni che si muove a scatti e ride a comando! Il frutto degenere di un’Italia laboriosa e costruttiva!”. Nel calderone delle critiche finiscono anche film che solo anni dopo verranno riconosciuti per quello che realmente sono, cioè degli autentici capolavori. Come quello che è, forse, il film più bello dell’attore partenopeo, un film che grazie alle straordinarie capacità interpretative dei due protagonisti, incarna alla perfezione il concetto di arte cinematografica: “Guardie e Ladri” (1952) . Quando la società stabilisce i ruoli dimentica che a volte gli uomini sanno liberarsi dai suoi opprimenti vincoli. E allora chi è la guardia e chi è il ladro? Certo, la guardia è Fabrizi, pacioso questurino alle prese con un tran tran quotidiano piccolo borghese e il ladro è Totò, imbroglione e furbo di tre cotte, trasformista geniale e fantasioso che non riesce a sfamare i suoi familiari. Ma la Guardia-Fabrizi è anche un ladro perché “ruba” (pur non volendo) il capofamiglia di questa famiglia sbandata, e il ladro-Totò è anche guardia perché, piegandosi alla galera, “santifica”la giustizia e l’onestà. È lo scontro-dialogo di due mondi solo apparentemente lontani, il rincorrersi perpetuo di sentimenti vivi e vitali che solo a una visione superficiale possono sembrare delle stupide baruffe macchiettistiche. E se Totò è il vate di questa poesia della vita, Fabrizi ne è il degno contraltare. Il mito si consolida attraverso alcune pellicole di transizione fino a giungere nel 1952 a “Totò a Colori”. È il primo film a colori realizzato in Italia e non a caso viene chiamato a interpretarlo proprio lui. Il film in fondo non è granché, trattandosi di una sorta di riproposizione montata delle più celebri scenette comiche del repertorio di Totò, con alcuni passaggi memorabili (l’episodio del vagon-lit, ad esempio, con un eccellente Mario Castellani). Poi, una non felicissima incursione nel neorealismo puro di Rossellini: le vesti del barbiere ex galeotto Salvatore Lojacono non si attagliano al suo corpo e lo rendono statico, quasi inerte. Ed ecco ancora i problemi con la censura di “Totò e Carolina”, sottoposto a tagli progressivi e umilianti; le farsesche interpretazioni del ciclo scarpettiano nei panni lisi di Felice Sciosciammocca. Film come “Siamo uomini o caporali”, che esemplificano le sue teorie filosofiche e il Saverio Petrillo marottiano de “L’Oro di Napoli”, non fanno che aggiungere lustro al blasone dell’attore. Nel 1956 si giunge a un altro passaggio cruciale: è l’anno di “Totò, Peppino e la malafemmena”, “Totò, Peppino e i fuorilegge” e “La banda degli onesti”, una trilogia che rappresenta uno dei momenti più belli della storia del Cinema italiano. Totò e Peppino De Filippo danno vita a duetti incredibili, fanno a gara nel superarsi usando le migliori armi del loro fornitissimo arsenale. I fratelli Caponi entrano nell’immaginario collettivo, diventano reali, assumono consistenza propria. Il bistrattato Antonio e il suo complice, il barbiere Peppino, indossano gli abiti di epici eroi in lotta contro le angherie della vita. Antonio Buonocore e Peppino Lo Turco dimostrano nel più efficace dei modi quanto sia impervia, eppure appagante, la strada dell’onestà. Poi una serie di lavori non brillantissimi di cui preferiamo ricordare solo alcuni frammenti: la memorabile lezione di scasso ne “I Soliti Ignoti” (1958) e la celebre frase “Creare è facile, è copiare che è difficile” del pittore Scorcelletti in “Totò, Eva e il Pennello proibito” (1959), lo portano negli anni sessanta. Ed è ancora il re della pochade in “Signori si Nasce” (1960), ma anche il reietto di “Risate di Gioia”, e poi ci sono le parodie nelle pellicole di facile consumo come “Totò, Peppino e la Dolce vita” e “Letto a tra piazze”. Si tratta di opere approssimative, con le piacevoli eccezioni de “Il Monaco di Monza”, “I Due Colonnelli” e “I Due Marescialli”. Pasquale Cicciacalda, furbissimo pseudofrate con i suoi dodici figli della Provvidenza, Il colonnello Di Maggio pronto ad affrontare il plotone di esecuzione, pur di non abiurare alla sua burbera bontà e Antonio Capurro, il ladro che si traveste da maresciallo dei carabinieri e scopre che l’abito, talvolta, fa il monaco, sono tre volti di una umanità dolente ma fiera e a suo modo nobilissima. L’eroe ora è stanco, malato, forse incapace di difendersi, solo così si può spiegare la partecipazione ad autentici obbrobri come “Il Comandante” (1963) o “Rita, la figlia americana”, in cui un tristissimo Totò fa da spalla a una insipida Rita Pavone. E si arriva così all’ultimo atto della storia, il controverso periodo in cui Totò incontra sul suo cammino un regista genialoide follemente amato o detestato a seconda dei gusti: Pierpaolo Pasolini. Totò girerà con il maestro tre pellicole, ognuna delle quali colpisce lo spettatore come un pugno alla bocca dello stomaco. Si pensi alla spettacolare e inquietante invenzione dei fili che muovono i personaggi de l’Otello con un perfido Totò-Jago. In coppia con il “borgataro” Ninetto Davoli, dalla recitazione iperrealistica, dà vita a sconcertanti figure muovendosi in una sorta di delirio onirico a ritmi folli. “Uccellacci e Uccellini” (1966), una parabola favolistica sulla storia e le ideologie in crisi della sinistra italiana, si svolge su una strada, un sentiero accidentato e tortuoso che Totò stava faticosamente percorrendo anche nella sua vita reale. Totò moriva il 16 aprile 1967, o forse no. Antonio De Curtis moriva il 16 aprile 1967, Totò invece continua a vivere in ogni piccolo sorriso del mondo.