SONYA CALEFFI UCCIDEVA PER SEMBRARE PIÙ BRAVA

«Li uccidevo con iniezioni d’aria», confessa Sonya Caleffi, «insufflate in vena attraverso la flebo del braccio. 40-50 cc di aria, anche con somministrazioni ripetute, e il paziente va in embolia gassosa, il volto diventa cianotico, le labbra blu…».
Sonya Caleffi nasce a Como nel 1970, primogenita in una famiglia dove regna un’atmosfera un po’ macabra. Il padre lavora in un’azienda di pompe funebri e la madre ripete ossessivamente che vorrebbe suicidarsi, angosciando la piccola Sonya. Quando dorme nel lettone, la bambina, che teme che la madre lo faccia davvero, controlla sempre il respiro della mamma.
Questo non significa che i genitori non vogliano bene alla piccola, anzi, le sono sempre accanto e la sostengono. Quando ha cinque anni, però, non si accorgono che la bambina rimane vittima di un molestatore.
Crescendo, Sonya Caleffi mostra un carattere dolce, ed è sempre pronta ad aiutare chi si trova in difficoltà. Decide che da grande farà l’infermiera, proprio per fare del bene agli altri. I coetanei, meno generosi, la prendono in giro perché è troppo alta e tende a ingrassare. Quando diventa adolescente inizia a soffrire di depressione e conosce l’anoressia. Da questo momento dovrà essere sottoposta a terapie psichiatriche per tutta la vita.
Il suo turbamento si riflette nei suoi frequenti cambiamenti di colore e taglio dei capelli. Dopo le superiori, nei primi anni novanta, Sonya frequenta il corso per diventare infermiera professionale. Nel 1993 inizia a lavorare negli ospedali e si fidanza con Alberto, un falegname di Cernobbio, la località turistica sul lago di Como, e dopo pochi mesi lo sposa.
All’inizio, trova che lui sia un uomo corretto e sensibile, ma non lo ha scelto perché ne sia innamorata, vuole solo abbandonare la casa dei genitori per essere indipendente. Invece si ritrova ingabbiata in un’altra casa con altri genitori, dove non fa altro che litigare con il marito perché, secondo Sonya, è succube della madre. Siccome non ha lasciato la propria famiglia per sottomettersi a una suocera, finisce che lascia Alberto dopo meno di un anno di convivenza matrimoniale.
Questa esperienza, inevitabilmente, rende Sonya ancora più insicura. Mentre avvia le pratiche per il divorzio, la donna va a convivere con un radiologo di Tavernerio, un paesino del comasco. Una relazione infelice, perché lei inizia a chiudersi sempre di più in se stessa e non si fa va mai vedere in giro con il compagno.
Ormai Sonya esce di casa solo per lo stretto necessario, mentre sul lavoro è sempre più introversa e taciturna. Viene odiata dalle altre infermiere, ma ha un buon rapporto con molti medici. Pure troppo. Da una clinica gestita dalle suore viene allontanata per essersi spinta troppo in là, con queste “simpatie”.
Quando sul lavoro le si presenta qualche problema serio, spesso scoppia a piangere e aspetta che gli altri intervengano per risolverlo. Soprattutto, fa numerose assenze senza fornire spiegazioni ed esibendo certificati medici nei quali si attesta genericamente che è stata malata.
La legge sulla privacy impedisce ai datori di lavoro di fare domande precise sul tipo di malattia della quale soffre, così nessuno viene mai a sapere che è in continua cura psichiatrica e che le vengono somministrati medicinali molto pesanti. Aggiunge a questi ultimi , di propria iniziativa, gli psicofarmaci che riesce a sottrarre sul posto di lavoro.
Per il suo comportamento strano e per le sue assenze, finisce che non viene mai assunta stabilmente in nessuno dei molti ospedali e cliniche private nei quali lavora. A un certo punto i rapporti vengono interrotti in quanto considerata “non idonea”.
Nel 2002, avvertendo un improvviso “grande senso di vuoto”, Sonya Caleffi tenta di suicidarsi andando a sbattere con la sua auto contro un muro. Nei successivi due anni riprova a suicidarsi altre tre volte provocandosi delle ferite, ma allo stesso tempo continua a lavorare passando da una clinica all’altra. Cominciano anche ad accadere fatti misteriosi, anzi, sinistri.
All’ospedale Sant’Anna di Como, dove lavora nel 2003, si verificano diverse morti alcune sospette. L’anno successivo viene assunta all’Ospedale Manzoni di Lecco, dove avvengono circa 18 decessi inspiegabili. Le altre infermiere sono perplesse, ma in mancanza di prove certe preferiscono tacere.
Tutto continua come se niente fosse, fino al giorno in cui Sonya Caleffi entra nella stanza di Maria Cristina, una degente di 90 anni, facendo uscire i parenti in malo modo. Rimasta sola, pratica all’anziana un’iniezione che le provoca la morte. Tra i parenti cacciati c’è anche una donna che fa l’infermiera. Questa signora capisce che il comportamento di Sonya non è normale e va a protestare alla direzione del presidio medico. La direttrice dell’ospedale Manzoni informa a sua volta la procura di Lecco, per gli accertamenti del caso.
Interrogata il 15 dicembre 2004, la 34enne Sonya Caleffi finisce per ammettere di aver commesso sei omicidi. Afferma di essere stata spinta dal senso di inadeguatezza che si porta dietro sin da bambina. Non avrebbe voluto uccidere nessuno, non intendeva praticare l’eutanasia, si sarebbe «limitata» a iniettare aria nelle vene di malati gravi, ma non terminali: aspettava che il loro battito divenisse irregolare per poi mostrarsi attiva e competente quando chiamava i soccorsi.
Voleva far vedere ai superiori che era una brava infermiera, perché si sentiva sottovalutata rispetto alle sue reali capacità e questo le provocava una forte prostrazione. Così, una volta creata la situazione d’emergenza, davanti ai medici e alle colleghe Sonya poteva mostrare un atteggiamento solerte, spiegare i sintomi del paziente e mettersi a disposizione con grande energia.
Secondo gli psichiatri, la sua esigenza di “sentirsi importante” era dovuta a una scarsa autostima, e poco le importava se i pazienti coinvolti ci lasciavano la pelle. Alla morte di uno di questi, una collega ricorda che Sonya era rimasta tranquillamente sulla porta a bere il caffè. La polizia, perquisendo la sua casa, trova diversi libri, tutti sottolineati e minuziosamente annotati, che parlano di depressione e morte. Alcuni titoli: “Donne invisibili”, “Sprecata”, “La Morte è amica”, “Veronika decide di morire”.
Viene anche notato che ha un portachiavi a forma di bara. Mentre la procura di Lecco continua a indagare, quella di Como contesta all’infermiera 15 omicidi e 3 tentati omicidi avvenuti l’anno precedente nell’ospedale cittadino. Queste ultime accuse verranno poi archiviate data l’impossibilità di provarle, dato che Sonya negherà di essere responsabile anche delle morti di Como.
Nel 2005, Sonya Caleffi ritratta la sua prima confessione, affermando di non ricordare più di avere ucciso nell’ospedale di Lecco (anche se non può escluderlo del tutto). «L’unica iniezione di aria che ricordo è quella che mi sono fatta una sera», dice, «quando ho cercato di suicidarmi senza una ragione precisa». La donna viene rinchiusa nel carcere milanese di San Vittore, dove le viene concesso di lavorare come telefonista.
Dopo alcune settimane la detenuta denuncia un secondino, che avrebbe cercato di costringerla a un rapporto sessuale. Ai giornalisti che vanno a intervistarla, spiega così i suoi problemi: «Non mi sono mai accettata, né fisicamente, né mentalmente. Non sono mai stata in pace con me stessa. Ancora oggi mi vedo grassa e sono complessata». In effetti, in prigione ha messo su parecchi chili.
Nel 2007, al processo, chiede perdono ai familiari delle vittime, ma chiede anche di poter tornare in libertà perché, grazie alle nuove cure ricevute dai medici del carcere, non si sente più la donna di prima. Viene condannata a 20 anni di reclusione per 5 omicidi e 2 tentati omicidi. Alla lettura della sentenza, Sonya ha un attacco di pianto isterico e deve essere portata via di peso dall’aula del tribunale.
Nemmeno le famiglie delle vittime sono soddisfatte, avrebbero voluto che le fosse dato l’ergastolo, ma i successivi gradi di giudizio confermeranno la pena. Una pena abbastanza mite dovuta al fatto che gli avvocati della difesa avevano richiesto il rito abbreviato.
In carcere, Sonya Caleffi legge molto e non manca mai alla messa. Difficile dire se il grande interesse mostrato per la religione da parte di molti assassini in prigione sia dovuto a un reale senso di colpa o se venga consigliato dagli avvocati per ottenere sconti sulla pena.
Molti commentatori hanno fatto notare che bisognerebbe modificare alcune norme sulla riservatezza, per evitare che le strutture sanitarie possano, a loro insaputa, affidare i pazienti a persone con gravissimi disturbi psichici.
All’interno di San Vittore, Sonya si fidanza seriamente con un detenuto con precedenti per droga, descritto da chi lo conosce come il classico tipo “bello e maledetto”. L’uomo frequenta la sezione femminile per fare lavori di manutenzione al sistema idrico.
Nel maggio 2010, i due si uniscono segretamente in matrimonio, tanto che non è trapelato neppure il nome dello sposo.
Sonya Caleffi viene liberata nel 2018, dopo aver scontato 14 anni di carcere.
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