RINA FORT HA UCCISO LA RIVALE E I SUOI FIGLI?

Rina Fort

Come ogni giorno, alle 8 di mattina, la nuova commessa che ha sostituito Rina Fort bussa alla porta dell’appartamento del principale per farsi dare la chiave del negozio di tessuti. Siamo a Milano in via San Gregorio, è il 30 novembre del 1946. Una data che rimarrà impressa nella memoria degli abitanti del capoluogo lombardo, perché quello che la commessa scopre dietro la porta è un orrore al di là di ogni immaginazione.

Nell’appartamento, in mezzo a un lago di sangue, ci sono i corpi massacrati di una donna e dei suoi tre figli. La presunta assassina, arrestata il giorno dopo, è Rina Fort, la commessa del negozio licenziata di recente.
Tutti si chiedono cosa abbia portato una donna di 31 anni, intelligente, gentile, garbata e dotata di fascino, a uccidere selvaggiamente la moglie e i tre figli del proprio amante. Alcune risposte, forse, si possono trovare scavando nella sua vita.

Nata in Friuli, Rina ha solo 10 anni quando vede il padre precipitare in un burrone, dove trova la morte. Le disgrazie sono solo all’inizio: da ragazzina rimane intrappolata nella propria casa durante un incendio, salvandosi per un pelo. Salva, ma senzatetto. Ancora minorenne, il suo fidanzato muore di tubercolosi. Dopo un’infezione alle ovaie, la giovane apprende di essere diventata sterile, lei che ha sempre desiderato diventare mamma.

A 22 anni, Rina sposa Giuseppe Benedet, suo compaesano, ma questi dà gravi segni di squilibrio appena dopo la cerimonia, e viene ricoverato in manicomio il giorno dopo le nozze.

Rina ottiene la separazione e si trasferisce a Milano. Qui incontra Varon Vitali, un commerciante di stoffe del quale diventa domestica e amante. L’uomo, però, non può più tenerla a servizio perché Rina litiga continuamente con la figlia. Per questo, nel dicembre del 1945, Vitali la presenta a Giuseppe Ricciardi, detto Pippo, un collega commerciante alla ricerca di una commessa per il proprio negozio.

Ricciardi, siciliano, è alto e magro, con baffetti neri. Di lui Rina si innamora subito e dimostra di saperci fare nel lavoro al suo negozio di via San Gregorio. Grazie alla sua dimestichezza con i clienti, gli affari vanno a gonfie vele. Il commerciante le regala una fede nuziale: la considera come una moglie e i due vanno a convivere a casa di lui.
Pippo, però, non è stato sincero con Rina, le ha tenuto nascosto di avere moglie e tre figli a Catania. Quando lei lo scopre non ne fa una grande tragedia: l’importante è che la famiglia rimanga lontano.

La convivenza va avanti fino all’ottobre 1946, quando Franca Pappalardo, moglie di Ricciardi, lascia la Sicilia e arriva con i figli a Milano: qualcuno le ha detto che il marito ha una relazione con una dipendente. Rina Fort deve lasciare la casa di Pippo e presto diventa di troppo anche nel negozio, creando imbarazzo alla coppia. Franca non capisce perché quella donna, che in fondo è solo un’impiegata, la faccia da padrona.

Al commerciante non rimane che licenziare in tronco Rina, che trova un nuovo impiego come commessa in una pasticceria. Ma non smette di vedersi con Pippo. La moglie, venutolo a sapere, dice alla rivale di farsi da parte, tanto più che è incinta del marito per la quarta volta.
Impossibilitata ad avere figli e di fronte all’ennesima relazione sfortunata, Rina Fort cambia volto: da donna affascinante e gentile si trasforma in un’assassina senza pietà.

La mattina del primo novembre 1946, la nuova commessa, che ha appena scoperto quattro cadaveri, scappa in strada terrorizzata.
Nel luogo del massacro la polizia trova tre bicchieri con residui di liquore. Evidentemente gli assassini erano due e ben conosciuti dalla padrona di casa, visto che è stato offerto loro da bere.
I mobili sono stati messi a soqquadro, come se si fosse trattato di un furto, ma è solo una simulazione per mascherare il vero movente della strage: che motivo avrebbero avuto dei rapinatori per uccidere un bimbo di pochi mesi, quindi non in grado di testimoniare contro di loro?

Pippo Ricciardi è a Prato, la capitale italiana dei tessuti, per acquistare alcuni lotti di stoffe da smerciare a Milano. Saputa la notizia del massacro, torna precipitosamente.
Interrogato dalla polizia su chi possa aver odiato fino a quel punto sua moglie, fa subito il nome di Rina. Poi, scortato nell’appartamento della tragedia dagli agenti, il commerciante non fa certo una bella figura sembrando più preoccupato della mancanza di due assegni e di qualche prezioso, piuttosto che dello sterminio della famiglia.

Altri poliziotti prelevano Rina Fort e la portano in questura. Qui la donna incrocia Pippo Ricciardi, che, pur sapendola indagata a causa sua, corre ad abbracciarla singhiozzando: «Rina mia!».
All’inizio del primo interrogatorio, che durerà diciassette ore filate, la donna nega ogni addebito.
Viene portata sul luogo del delitto, dove si mostra indifferente, ma quando ritorna in questura vuota il sacco e racconta tutto.

È la sera del 29 novembre quando Rina bussa alla porta di casa Ricciardi, dove viene ricevuta con fredda gentilezza da Franca Pappalardo. Si accomoda in cucina mentre i bambini le giocano intorno: Giovanni, 7 anni; Giuseppina, 5 anni; e Antonio, 7 mesi. La Pappalardo prende una bottiglia di liquore per offrire un bicchierino a Rina, ma si accorge che è ancora chiusa. Così va in sala da pranzo per cercare il cavatappi.

«A questo punto», racconta Rina Fort ai poliziotti, «ho rotto il collo della bottiglia e ho versato per terra il liquore. Accecata dalla gelosia, mi sono alzata e mi sono gettata sulla Pappalardo, colpendola ripetutamente alla testa con una spranga di ferro che avevo trovato in cucina. Giovannino mi ha afferrato alle gambe per difendere la madre, con una spinta l’ho scaraventato in un angolo dell’anticamera e ho alzato la spranga su di lui colpendolo alla testa. Poi sono rientrata in cucina e ho aggredito Pinuccia. Ad Antonio, che era sul seggiolone, ho dato un colpo solo, al capo. Poi ho aperto diversi cassetti prendendo denaro e gioielli. Tornando sui miei passi, ho visto la Pappalardo. Fissandomi con gli occhi sbarrati, diceva con un filo di voce: “Disgraziata! Ti perdono perché Pippo ti vuole tanto bene. Ti raccomando i bambini, i bambini…”. Allora ho calpestato il suo corpo con tutte le mie forze. Poi me ne sono andata mentre Franca e i figli erano agonizzanti».

Il caso sembra risolto, anche se rimane qualche discrepanza tra la confessione e gli indizi trovati sulla scena del delitto.
Poco dopo aver parlato con il suo avvocato, Rina Fort cambia versione. Afferma di aver confessato il falso perché schiaffeggiata da un funzionario di polizia.

La donna adesso sostiene che quattro giorni prima del massacro Pippo Ricciardi avrebbe parlato a lei e a un cugino di cui conosce solo il nome, Carmelo, della necessità di simulare una rapina per convincere la moglie Franca che Milano è una città pericolosa, e farla così tornare a Catania. Inoltre, Ricciardi voleva allentare la presa dei creditori: con la scusa della rapina nel suo appartamento, poteva dire che non saldava i debiti per colpa sua.

Rina, secondo questa nuova versione, avrebbe dovuto limitarsi a portare Carmelo nella casa di via San Gregorio. Quello che è successo dopo non lo ricorda bene, perché Carmelo le avrebbe fatto fumare una sigaretta drogata con l’oppio.
La polizia si mette alla ricerca di Carmelo tra parenti e amici di Ricciardi. Se ne trovano ben cinque con quel nome, ma solo uno, Carmelo Zappulla, non ha un alibi per la sera della strage.

Al termine delle indagini, vengono arrestati la Fort e Zappulla come sospetti esecutori materiali della strage e Ricciardi quale mandante. Ma le sorprese non sono finite. Dopo più di un anno e mezzo di detenzione preventiva, i due uomini, considerati dagli inquirenti estranei al delitto, vengono scarcerati in attesa di processo.

Sull’odissea di Carmelo Zappulla è il caso di soffermarsi. In un confronto all’americana, la Fort non lo riconosce e indica come “Carmelo” un poliziotto in borghese al suo fianco. Riportata in carcere, viene informata dalle altre detenute che ha scelto la persona sbagliata. Allora Rina chiede di ripetere il confronto e indica con esattezza il povero Zappulla. Pochi giorni dopo essere uscito di prigione e prima che inizi il processo, Carmelo, ridotto a una larva umana, macerato da tutto il tempo passato a San Vittore, muore.

Nel 1950 inizia il processo. Tutti sembrano convinti della colpevolezza di Rina, però il particolare dei tre bicchieri sul luogo della strage non torna. C’era davvero qualcun altro con lei?
Rina Fort viene giudicata colpevole e condannata all’ergastolo, sentenza confermata nel 1952 dal processo d’appello, mentre Ricciardi e Zappulla sono prosciolti da ogni accusa.

La donna è incarcerata a Perugia, poi viene trasferita a Trani, in Puglia, e infine a Firenze. Rimane in prigione sino al 1975, quando ottiene la libertà vigilata. Nello stesso periodo muore Pippo Ricciardi, che era tornato in Sicilia, dove aveva aperto un negozio e si era risposato e avuto un figlio.

Una volta libera, Rina va a vivere a Firenze presso una famiglia che l’ha accolta. Cambia cognome, Furlan al posto di Fort, per nascondersi nell’anonimato, e lavora come cuoca in parrocchia («È gentile e buona, si è completamente redenta», dice il parroco).
Muore per un infarto il 2 marzo 1988.

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