FRANK MILLER E JOHN BYRNE LANCIATI DA JIM SHOOTER

FRANK MILLER E JOHN BYRNE LANCIATI DA JIM SHOOTER

Ricorda Jim Shooter: “Tutti gli addetti ai lavori non facevano che parlare della imminente fine del business. Paul Levitz, Marv Wolfman, Len Wein, Gil Kane, tutti. Tutti parlavano di entrare in qualche altro settore: animazione, film o televisione. Tutti tranne me. Io pensavo che i fumetti non avessero ancora espresso tutto il loro potenziale”.


All’inizio del suo mandato, nel 1978, Jim Shooter sembrava solo l’ennesimo direttore generale di una azienda in crisi che aveva evitato la bancarotta per un pelo grazie all’adattamento a fumetti della saga di Star Wars.


“Il mio obiettivo era salvare la Marvel e l’industria del fumetto, entrambe in grave pericolo nel 1978, e far crescere la compagnia e l’industria fino a quando il fumetto non avesse ottenuto il posto che gli spettava tra gli altri media”.
Jim Shooter ottenne questo e altro nei suoi dieci anni ai vertici della Marvel, lo fece razionalizzando e rivoluzionando l’intero apparato produttivo e puntando sulla qualità. Lo poté fare valorizzando un nuovo Kirby e un nuovo Ditko, Frank Miller e John Byrne, che fino a quel momento erano relegati al solo ruolo di disegnatori. Uno dei suoi tanti meriti fu quello di assistere e sostenere questi due grandi talenti, favorendo anche una sana rivalità tra i due perché voleva i fumetti migliori che si potessero fare.

FRANK MILLER

“Frank era un ragazzino del Vermont che voleva diventare un artista dei fumetti”, racconta Jim Shooter. “Venne a New York nel 1977 e subito mostrò i suoi lavori al suo idolo, Neal Adams, ma ne ottenne una critica impietosa. Fu talmente deluso da quelle critiche che smise di disegnare, poi in cuor suo mandò a quel paese Adams e ci riprovò. Finì per ottenere un piccolo lavoro alla Western Publishing, che gli fece riacquistare abbastanza amor proprio da proporsi a Vinnie Colletta, che ne riconobbe il talento e organizzò per lui un fumetto di guerra di una pagina”.

Una delle prime copertine del giovane Frank Miller

“Cosi pensò di essere pronto per venire da me. E lo era. Gli diedi un lavoro di cinque pagine”. Il primo lavoro per la Marvel furono i disegni di una storia breve scritta da Mary Jo Duffy per un Annual di Hulk. Di quell’incontro, Jo Duffy avrebbe poi detto: “Conobbi Frank per la prima volta quando eravamo entrambi al lavoro su una storia di prova per la Marvel. Ero la scrittrice più giovane di tutto l’ufficio e lavoravo su un sacco di storie brevi con aspiranti disegnatori. In confronto a tutti gli altri, il potenziale di Frank e il suo talento svettavano. Per questo non perdo l’occasione per affermare che sono stata la prima presso la Marvel, e una delle prime persone in assoluto, ad avere la possibilità di capire quanto fosse in gamba Frank Miller”.

Nel maggio del 1979 Frank Miller fa il suo esordio alle matite di Devil. In quel periodo le storie le scriveva Roger MacKenzie. “Non passava giorno senza che qualcuno della sezione finanziaria mi ricordasse che quello era uno dei nostri titoli meno venduti e che avremmo dovuto cancellarlo al più presto”, dice Jim Shooter andando con la memoria al primo periodo di Miller su Devil.

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“Io sostenevo che il titolo non andava chiuso per il semplice motivo che quel ragazzino era un genio e che prima o poi i lettori lo avrebbero capito. A un certo punto, Frank quasi si licenziò perché non gli piacevano le sceneggiature di Roger… ma io lo dissi a Denny O’Neil, che alla fine spostò Roger su qualcos’altro. Penso che il fattore principale di questa decisione fosse che Denny avesse letto una sceneggiatura che Frank aveva appena terminato: la prima storia di Elektra. Denny era stupito di quanto fosse bella”
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All’inizio Miller aveva concepito una storia incentrata su un personaggio di nome Indigo. Era la fidanzata di Matt dei tempi del college, la figlia di un diplomatico greco. Aveva lasciato Matt e gli Stati Uniti dopo che suo padre era stato assassinato. Privata della sua innocenza, era diventata una mercenaria. Ora era tornata e Matt Murdock, nei panni di Devil, doveva fermare la donna che aveva amato. Il modello principale era una vecchia femme fatale dello Spirit di Will Eisner, la spia internazionale Sand Saref, ma la recente fascinazione di Miller per le arti marziali giapponesi arricchiva il tutto di sviluppi nuovi e visivamente interessanti. A un certo punto, Miller decise di dare risalto al potenziale mitico della storia cambiando il nome di Indigo in Elektra. Daredevil n. 168, il debutto di Frank Miller come sceneggiatore oltre che disegnatore, fu un successo istantaneo.
“Fu cosi che le vendite decollarono e tutti mi considerarono un genio. Ma fu solo Frank a salvare il titolo”.

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Miller iniziò a riempire le sue tavole di treni sopraelevati, acquedotti, grattacieli di vetro e bar malfamati stipati all’interno di piccoli, claustrofobici rettangoli.

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Miller accettava di buon grado i consigli di storytelling di Jim Shooter, prendevano un drink insieme e parlavano del personaggio di Matt Murdock e delle sue motivazioni. Anche Denny O’Neil, editor di Daredevil, prese Miller sotto la sua ala protettiva. “Era uno degli allievi migliori che avessi mai avuto”, dirà O’Neil. “Giocavamo a pallavolo la domenica pomeriggio, e quando andavamo tutti insieme a prenderci un hot dog da Nathan mi faceva domande sul mio lavoro. Divenne come un secondo figlio per me”.

JOHN BYRNE

Notando che John Byrne e Chris Claremont lavoravano bene insieme li aveva riuniti su Marvel Team-Up, la serie che ogni mese affiancava Spider-Man a un eroe diverso. Quando Iron Fist venne cancellato e si fuse con Power Man (il nuovo nome di battaglia di Luke Cage) nell’albo Power Man and Iron Fist, furono Byrne e Claremont a occuparsene.


Il prolifico Byrne aggiunse ai suoi carichi di lavoro anche The Champions, alcuni numeri di The Avengers e, nello stesso tempo, come un avvoltoio girava intorno a Dave Cockrum alquanto innervosito perché a conoscenza del fatto che Byrne avrebbe voluto disegnare pure gli X-Men. “John si comportava come se fosse il legittimo erede di quella serie, e non vedeva l’ora di prendersela”, dirà Cockrum. “Ogni volta che passava dagli uffici della Marvel lo faceva notare. E io rimasi su quel titolo un po’ di più proprio solo per dargli noia”. Ma con il numero 108 del dicembre 1977 John Byrne prese in mano le matite di Uncanny X-Men dando inizio a una run che sarebbe rimasta nella storia. Una run che trova il suo apice nella saga di Fenice Nera. 

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The X-Men n. 137 era un numero doppio, uno dei primi da quando la Marvel aveva deciso di entrare nel mercato delle fumetterie, per il quale i preordini avevano già raggiunto la cifra di 100mila copie (i due terzi della diffusione, invece, erano ancora venduti nei canali tradizionali). Tuttavia il finale della storia non convinse affatto Jim Shooter.

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“Fare distruggere a un personaggio un mondo abitato da miliardi di persone, fargli spazzar via una nave spaziale e alla fine, be’, togliergli semplicemente i poteri e farlo ritornare sulla Terra… mi sembra un po’ come se alla fine della Seconda guerra mondiale Hitler fosse stato catturato e gli avessero tolto il controllo dell’esercito tedesco, lasciandolo però libero di andare a vivere a Long Island”.
Jean Grey doveva pagare per i suoi crimini, insisteva Shooter. Fenice doveva morire.

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Claremont aveva trascorso gli ultimi quattro anni a progettare e a mettere in atto poco alla volta il finale della saga di Fenice. Tutte le trentacinque pagine di X-Men n. 137 erano già state disegnate. Ora lui e Byrne avrebbero dovuto modificarle nel giro di pochi giorni. Era la prima volta, disse Shooter, che imponeva dei cambiamenti alla storia di qualcun altro. X-Men n. 137 uscì il 17 giugno 1980. I lettori più fedeli presero d’assalto le fumetterie e lo divorarono pagina dopo pagina fino a quando, all’improvviso, tutto finiva nel modo peggiore. Negli ultimi istanti della storia la personalità di Jean Grey andava e veniva come il segnale di una radio mal sintonizzata, mentre Fenice Nera sembrava avere la meglio su di lei. “Ho paura, Scott”, diceva piangendo a Ciclope prima di lasciarsi abbattere da un’antica arma Kree. “Sono appesa a un filo. Fenice sta prendendo il sopravvento e parte di me… desidera che lo faccia”. Poi, all’improvviso, Ciclope si inginocchiava e si metteva a piangere su un cratere fumante.

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I fans erano più emozionati che mai. Il personaggio tragico e imperfetto il cui destino drammatico è segnato dalle proprie azioni, vittima e carnefice nello stesso tempo colpì profondamente i lettori. Una quantità mai vista di lettere di critica sommerse la redazione al numero civico 575 di Madison Avenue, New York. Claremont riconobbe che le richieste di Jim Shooter avevano migliorato la storia, anche se pensava che le conseguenze a lungo termine di tale decisione, la morte di Jean Grey, fossero sbagliate.
“Purtroppo”, disse con diplomazia, “si arriva a un punto in cui atteggiamenti e soluzioni differenti riflettono gli approcci morali e filosofici diversi dei singoli scrittori e disegnatori”. Tuttavia quel mese The X-Men vendette più del doppio di ogni altro fumetto.
Shooter chiese a Jim Starlin se per caso non si potesse uccidere anche Capitan Marvel.

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Assediato dai fan che gli ponevano la stessa domanda (“Jean Grey è morta per davvero?”), John Byrne camminava in mezzo alla folla con una maglietta su cui c’era scritto: “È morta e rimarrà morta”.
Il numero seguente, X-Men n. 138, in cui il sofferente Ciclope ricordava la sua amata Jean, vendette ancor di più del suo precedente.

(Su Jim Shooter e la successiva run di John Byrne dei Fantastici Quattro vedi QUI – NdR).

1 commento

  1. Quando Chester Gould fece piallare il killer Flattop dal suo pulotto Dick Tracy non poteva certo immaginare che quel sicario dalla testa trapezoidale con un debole per il gentil sesso avrebbe avuto un vero funerale pagato dai suoi fans. Mi chiedo se Big Jim Shooter, FM , X-Chris e Back to basics Byrne avessero in mente le corone di fiori e le lacrime per uno hitman colle lentiggini e pettinato come il Dracula di Coppola quando hanno deciso di far attraversare Nuova York ad Elektra con le viscere penzoloni e di cancellare dal mutantverse la rossa telecineta amata da Ciclope e Logan ed un tempo desiderata da Warren Worthington III in arte Angelo e persino da un Charles Xavier blandamente rattuso ( spunto poi ripreso da Mark Waid al tempo di Onslaught ndr ). Una cupio dissolvi che era partita con la dipartita del capitano Stacy e soprattuto della figlia Gwen – probabilmente quello ” snap ! ” risuonava ancora nelle zucche dei creativi della Casa delle Idee – senza contare Battling Murdock , Ben Parker , Simon Williams , Bucky Barnes e via tumulando. Le cose cambiano, naturalmente, e bastano le dimensioni alternative , la clonazione, il viaggio nel tempo, il trapianto di cervello e di anima e la trascrizione dei pattern del nostro software per rimettere in carreggiata personaggi che avevano tirato il calzino. Fermi un giro in ultima analisi. Poi pescano il cartellino esci dalla prigione senza passare dal via e sono back in action ( e non solo sulla carta , se si pensa agli sviluppi quasi sicuri della prossima puntata degli Avengers al cinema ). So che molti lettori hanno pianto Fenice nel 1980. E Gwen nel 1973. So che Crepascolino – nove anni di affettato cinismo – sa benissimo che i picchiatelli in costume che vede sullo schermo, nei cartoni animati, discussi dagli stramaledetti youtubers e raramente persino nei comics non muoiono mai davvero, il che forse lo sta rendendo + scafato sui meccanismi della fiction.
    So che un mio collega – nato qualche anno dopo di me – ha pianto nel finale del Godzilla degli anni novanta quando la lucertola gigante radioattiva muore. Pensava non sarebbe mai tornata. Pfui.

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