LA VIOLENZA DEGLI ANNI ’70 IN QUATTRO FILM

Ogni volta che si prende in considerazione la questione della violenza nel cinema finiscono per fronteggiarsi due impostazioni: da una parte quanti pensano che la sua presenza aumenti negli spettatori la propensione a essere ostili verso il prossimo, dall’altra coloro che sostengono che la visione della violenza aiuti invece il pubblico a scaricare la propria intrinseca aggressività in modo non pericoloso.
Entrambe le posizioni sembrano dare per scontato che le immagini di violenza, in un modo o nell’altro, agiscano su chi le osserva e determinino degli effetti.
La violenza nella società americana
A partire dagli anni settanta, quando le maglie della censura si allentano, il cinema inizia a mostrare sempre più palesemente la violenza, tanto che alcuni autori parlano di un passaggio “dall’avarizia espressiva” alla “bulimia estetica”. La maggior parte dei registi contemporanei mette in scena la violenza come semplice dato di fatto.
Tutto inizia negli Stati Uniti agli inizi dei settanta, un Paese che stava vivendo forti tensioni sociali. Già esaurita l’esperienza hippie del “peace and love”, il nuovo decennio si apre all’insegna della disillusione, del proseguo delle tensioni razziali, della crisi di valori, da una guerra del Vietnam che sembra non finire mai, dalla sempre maggiore diffusione della droga e della criminalità a essa collegata. Insomma, all’insegna della violenza reale.
Vediamo come il cinema riporta quel clima di violenza attraverso quattro film usciti nel 1971.
Il braccio violento della legge
(The French Connection)
Tutto il film di William Friedkin ruota intorno alla controversa figura di Popeye Doyle, la cui riuscitissima caratterizzazione frutterà a Gene Hackman un Oscar come attore protagonista. Egli rappresenta l’immagine al rovescio del classico detective positivista, razionalista e deduttivo, essendo piuttosto una persona dal carattere impulsivo che vive di contrasti e passioni. Donnaiolo, rozzo, estroverso, sbruffone e razzista, è l’esatto opposto del suo compagno Cloudy, introspettivo, chiuso e lunare. La figura di Popeye risulta contrapposta anche a quella del gangster Charnier: colto, innamorato della moglie giovane e bella, raffinato. La proiezione ideale di tutto quello che Doyle vorrebbe essere.
In ogni caso il detective Popeye Doyle rappresenta la legge, le istituzioni, ma si tratta di istituzioni malate, di una legge distorta senza più una netta distinzione tra il bene e il male. Popeye è talmente ossessivo da estraniarsi totalmente dal senso della propria missione. L’ossessione di cui è preda gli impedisce di discernere la liceità morale delle proprie azioni.
Durante il celebre inseguimento sulla soprelevata, il detective non si pone mai il problema di mettere in pericolo le vite di diversi innocenti (e, addirittura, uccide il sospettato sparandogli alle spalle). Nel finale, nulla gli importa di avere ucciso un collega per fatalità. Popeye è l’incarnazione dell’impronta più profonda del film: non esistono più categorie nette, precise, distinte (Bene/Male, Giusto/Ingiusto) da scegliere e a cui adeguarsi. Non esistono più chiavi di lettura precise per un mondo in mutazione. Tutto è arbitrariamente confuso, nebbioso, indefinito. Tutto si presta a un’inestricabile ambiguità di significati.
Cane di paglia
(Straw Dogs)
La ferocia appartiene al maschio, egli azzanna il nemico alla gola, specie se ha invaso il suo territorio, opportunamente segnato come fanno i cani. Lo sono altrettanto gli uomini, pronti a unirsi tra di loro per combattere il nuovo e il diverso. Il cinema di Sam Peckinpah è sempre stato fortemente improntato al pessimismo, ma in questo capolavoro esplode in tutta la sua virulenza una costante della sua opera: è l’uomo ancestrale e primitivo a ergersi a protagonista del racconto. La sua ferocia istintiva, il suo egoismo irriducibile, vera caratteristica universale dell’essere umano.
Le dinamiche tra uomini che si sfidano per il dominio fisico, il possesso della donna, la conquista del territorio. Il cinema di Peckinpah si potrebbe definirlo antropologico, per come si approccia con estremo cinismo nei confronti dell’utilizzo della violenza. Non è un caso che in tal senso Peckinpah abbia dedicato buona parte della sua carriera a una rivisitazione del genere western, dandogli una propria lettura sporca e istintiva.
Il film offre il meglio nel finale, in cui natura e cultura vengono a scontrarsi sul terreno dell’applicazione del diritto naturale. Ciò che fa esplodere l’animale in David (Dustin Hoffman), oltre all’inviolabilità della proprietà privata, è l’infrazione al principio della giustizia: se lo scemo del villaggio ha commesso un omicidio, merita comunque un processo e non un sommario linciaggio di massa. La violenza nell’interminabile assedio degli ultimi 40 minuti si fa estrema e quasi insopportabile, anche se disperatamente umana.
Arancia meccanica
(A Clockwork Orange)
La trama del film di Stanley Kubrick ispirato al romanzo di Anthony Burgess è semplicissima. Il singolo individuo non ha il diritto di esercitare la violenza. Il violento è un antisociale, un deviante, una scheggia impazzita. L’atto di violenza è un atto di rivolta contro il sistema: è proibito e quindi va punito. La punizione sarà dura e verrà inferta dallo Stato, unico soggetto che può utilizzare legalmente la violenza. Il film vuole aprire un canale di riflessione sullo stretto rapporto che intercorre tra violenza e potere, e sulla costruzione del pensiero unico imposto nella società distopica di Burgess.
La violenza è presentata dal regista attraverso episodi di selvaggia brutalità, quasi al limite del sopportabile, ma è la violenza sociale perpetrata dalle istituzioni che sta al centro della critica di Kubrick. Una violenza ambigua, in quanto mascherata sotto una patina di perbenismo e falsità, che opprime il singolo, che punisce chi non obbedisce, che reprime il non integrato.
Spiega Anthony Burgess: “All’inizio del libro e del film, Alex è un essere umano dotato (forse anche sovradotato) di tre caratteristiche che noi consideriamo attributi fondamentali per un uomo. Si compiace di utilizzare un linguaggio eloquente e ne inventa addirittura una nuova forma, ama la bellezza che individua nella musica di Beethoven più che in qualsiasi altra cosa ed è combattivo. Con i suoi amici meno umani di lui, dato che non si interessano granché alla musica, a notte fonda terrorizza le strade di una grande città. Quello che cercavo di esprimere è che è meglio essere malvagi per propria scelta che essere buoni grazie a un lavaggio scientifico del cervello”.
Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo!
(Dirty Harry)
Spietato, insubordinato a qualsiasi ordine dei superiori, freddo, consapevole della situazione di impotenza del dipartimento di polizia, l’ispettore Callaghan, interpretato da Clint Eastwood, fa il suo esordio sulla scena cinematografica nei panni di un moderno cowboy metropolitano. Solo contro tutti, e mosso da un senso del dovere che rasenta la testardaggine, persegue una sua personale idea di giustizia. Il fine giustifica i mezzi: tutto è lecito per arrivare alla soluzione del caso. Anche utilizzare metodi brutali al limite della legalità.
La figura di Harry la Carogna ripropone tematiche ancora attuali: in primo luogo la figura del poliziotto che, sempre a rischio di gravi lesioni personali, si trova nella continua tentazione di cedere alla violenza durante l’azione. In secondo luogo, dalle situazioni nelle quali si imbatte ogni giorno emerge la necessità di leggi e di apparati giudiziari che, tutelando i legittimi interessi dei cittadini e perseguendo adeguatamente la delinquenza, riescano da una parte a impedire gli abusi da parte della polizia e, dall’altra parte, a non concedere troppe scappatoie legali ai criminali.
L’accusa che da sempre si muove a questo cult del regista Don Siegel è di essere di estrema destra. I presupposti per inquadrare il personaggio in tal senso sembrano esserci. Harry detesta i regolamenti, i burocrati e i propri superiori. Intollerante verso qualsiasi forma di diversità, reazionario fino al midollo, Harry rappresenta per molti l’esaltazione della violenza legalizzata, quella che porta a giustificare metodi brutali pur di garantire l’ordine nella città.
Anche se forse questo genere di film, più che definire modelli politici, si limita a mostrare stati psicologici provocati da situazioni estreme.