LA SERIE DI ROBIN HOOD CHE UNISCE MITO E STORIA

Semisconosciuto in Italia, Robin of Sherwood è un bel telefilm britannico degli anni ottanta che ha rilanciato il mito di Robin Hood meglio di tante pellicole cinematografiche.
Una versione talmente ampia e completa che ha regalato ben due incarnazioni dell’eroe.


È possibile dire qualcosa di nuovo su Robin Hood? Ridley Scott nel 2010 ha pigiato sulla violenza e sul guerresco, trasformandolo in un ibrido tra Braveheart e Il Gladiatore.

“Meno calzamaglia, più sangue in faccia”

L’esordiente Otto Bathurst ne ha appena confezionato una versione con un Little John nero, Jamie Foxx, versione Obi-Wan Kenobi e action da videogame, che si è dimostrato subito un flop di pubblico e critica.

“Robin Hood: un Assassin’s Creed in Calzamaglia”


Eppure c’è stato chi ha saputo rispolverare il glorioso arciere, creando qualcosa di nuovo e al contempo classico.

Quel qualcuno è stato Richard “Kit” Carpenter (1929-2012), lo sceneggiatore inglese che nei primi anni ottanta accettò la sfida di rilanciare Robin Hood in tv. E lo fece con le idee ben chiare, esplorandone i vari aspetti tra realtà e leggenda e fondendoli come nessuna trasposizione precedente aveva fatto prima.

Il risultato fu Robin of Sherwood, serie prodotta dal 1984 al 1987 per un totale di 26 episodi scritti da Carpenter e diretti da vari registi.

In Italia è poco conosciuta, la Rai la trasmise a suo tempo con il convenzionale titolo Robin Hood, dopodiché sparì nel nulla. Invece nel resto del mondo gode ancora di un folto cult-following tanto che, nonostante il successo planetario del kolossal con Kevin Costner uscito cinque anni dopo, molti continuano a considerare Robin of Sherwood la versione migliore e definitiva della leggenda.

Questo proprio perché Kit Carpenter ha saputo fondere abilmente gli aspetti storico-realistici della storia di Robin Hood con quelli fantasy-fiabeschi.

Il telefilm si svolge in un medioevo ricostruito con precisione, dove si parla di crociate e templari, nonché del conflitto tra sassoni e normanni: il cognome di Robert de Rainault, sceriffo di Nottingham, e del suo fratello vescovo Hugo, tradisce l’appartenenza agli invasori normanni.

Ma è anche un medioevo dove i sassoni servi della gleba, per quanto cristianizzati, mantengono le tradizioni dell’antica religione celtica.
Alcuni studiosi ritengono che Robin sia una rielaborazione di Herne il Cacciatore, mitico protettore dei boschi del folclore pagano. Nella versione di Carpenter, Robin viene scelto da Herne come proprio erede per difendere il popolo e custodire la mitica “freccia d’argento”, tesoro dei sassoni.

Altri studiosi ritengono che Robin Hood sia esistito, ma non sono sicuri se fosse tale Robin di Loxley (villaggio dalle parti di Sheffield) o il conte Robert della contea di Huntingdon. Anche in questo caso Carpenter salva capra e cavoli: nella prima metà della serie il protagonista è Loxley, interpretato da Michael Praed (che in quel periodo è anche il principe di Moldavia nella soap Dinasty). Morto lui, il nome di battaglia di Robin Hood viene ereditato da Huntingdon, interpretato da Jason Connery, figlio di Sean.

Il resto della banda dei boschi è quello tramandato dalle ballate. L’amata lady Marion, figlia di un nobile ucciso nelle crociate e a cui la Chiesa (nelle vesto del vescovo Hugo) ha confiscato le terre. L’astuto e simpatico frate Tuck, ex-cappellano dello sceriffo. E poi il corpulento Little John, Will Scarlet (interpretato da Ray Winstone, l’attore con la carriera più fortunata del cast), e il giovane Much, figlio del mugnaio che adottò il primo Robin ancora in fasce. L’unica concessione alla modernità politically-correct è il personaggio di Nasir, guerriero saraceno che probabilmente ha ispirato l’Azeem di Morgan Freeman nel film di Costner.

Alan A-Dale, menestrello anch’esso membro della banda (l’equivalente del Cantagallo del film animato Disney), apparve nelle ballate di Robin Hood solo a partire dal 1600. Essendo quindi ritenuto un personaggio “apocrifo” fu inserito in un solo episodio della prima stagione, perlopiù come comic relief.

Re Riccardo è John Rhys-Davies

Un altro punto di forza della serie è stata la soundtrack firmata dai Clannad, il gruppo di Enya (composto dai suoi zii e cugini) prima della svolta solista. Le musiche vinsero il premio Bafta e furono raccolte nell’album Legend, divenuto il piccolo grande capolavoro su cui si è formata tutta una nuova generazione di musica folk-celtica.

La serie era co-prodotta dalla Goldcrest, casa di produzione celebre per film di successo come Momenti di Gloria, Gandhi e Mission. A metà anni ottanta andò incontro a sonori flop al botteghino (come Revolution con Al Pacino), e per rimediare alle perdite smise di finanziare Robin of Sherwood. La rete britannica privata Itv, non potendosi permettere di produrlo da sola, cancellò la serie prima del tempo.

Ci facevano pure i fumetti…

Negli ultimi episodi, Marion decide di entrare in convento, mentre il nuovo Robin scopre di essere il fratellastro del tirapiedi dello sceriffo, sir Guy de Gisburne, interpretato da Robert Addie (1960-2003), il Mordred di Excalibur. Nessuna resa dei conti decisiva, e quindi nessun finale vero e proprio.

La fine improvvisa della serie non ha fatto altro che nutrire nel pubblico la voglia di vederne il proseguimento. Nel 2016, grazie a un crowdfunding, è stato possibile realizzare Robin of Sherwood: The Knights of Apocalypse, un audio-dramma con le voci del cast originale (incluso Praed, in un’apparizione come fantasma), basato sullo script che Carpenter aveva lasciato come ideale conclusione della serie. I proventi, come da volontà dello scomparso Carpenter, sono stati devoluti alla Croce Rossa britannica.

E con questo è tutto. Vi lasciamo con una nostra fan-art in omaggio alla serie (e relativo making of).

 

(Immagini trovate su Internet: © degli aventi diritto).

 

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