KAPPLER, IL NAZISTA CHE FUGGÌ DENTRO UNA VALIGIA

Alle Fosse Ardeatine, vecchie cave abbandonate alla periferia di Roma, una ventina di soldati delle SS devono uccidere trecentotrenta prigionieri italiani: troppi per organizzare una normale fucilazione. Il colonnello Herbert Kappler decide allora che i condannati vengano presi cinque alla volta con le mani legati dietro la schiena, portati dentro le cave e uccisi con un colpo di pistola alla testa.
Il massacro delle Fosse Ardeatine
Più o meno, ogni soldato dovrebbe eliminare quindici prigionieri. Kappler dà l’esempio, cominciando a ucciderne qualcuno. All’improvviso un soldato scoppia in un pianto dirotto davanti ai propri ostaggi. “Colonnello”, dice a Kappler, “non ho il coraggio di uccidere questi uomini uno dopo l’altro… non ho il coraggio!”.
L’ufficiale punta la pistola contro di lui e gli risponde freddamente: “Se non cominci subito il tuo lavoro, andrai all’altro mondo prima di loro”.
All’inizio con mano tremante, poi in maniera automatica, il soldato esegue il terribile ordine.
Alla conta finale ci si accorge che per un errore sono stati uccisi 335 uomini, cinque in più di quelli che dovevano essere fucilati.
Mentre gli ingressi delle cave vengono fatti esplodere per nascondere i cadaveri, cala un tramonto rosso sangue su quella tragica giornata del 24 marzo 1944.
Herbert Kappler, un SS a Roma
Figlio di un autista municipale, Herbert Kappler nasce a Stoccarda, in Germania, nel 1907. Di corporatura piccola, biondo, irrequieto, Herbert è sempre il primo a sfidare a duello i compagni di università.
Con la salita al potere di Adolf Hitler, diventa ufficiale delle SS, l’unità paramilitare nazista sinistramente famosa per la spietatezza con la quale perseguita oppositori politici ed ebrei.
Con il grado di capitano, Kappler viene inviato nel 1939 all’ambasciata tedesca di Roma. Il suo compito è quello di fare la spia: sebbene alleato di Benito Mussolini, Hitler non si fida degli italiani. Ricorda quando l’Italia, alleata con la Germania e l’Austria, durante la Prima guerra mondiale era passata al fianco dei nemici.
Negli anni successivi, la vita di Kappler diventa un inferno. Non per il lavoro, dato che, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, l’Italia fascista rimane fedele ai tedeschi, ma per quello che succede dentro casa.
Ha sposato Nora, una donna energica più grande di lui, che non intende dargli i figli che desidera e che lo tradisce apertamente.
Non riuscendo più a convivere con la moglie, Kappler chiede di essere inviato a combattere sul difficile fronte russo. Ma i superiori apprezzano troppo le sue capacità per perderlo e lo autorizzano, invece, a divorziare da Nora. Un favore non da poco, tenuto conto del moralismo delle SS, che danno la massima importanza all’unità della famiglia.
Kappler tira un sospiro di sollievo e, rimasto solo, adotta a distanza un bambino della Lebensborn, l’istituzione delle SS che si propone di selezionare tedeschi di “pura razza ariana”, possibilmente biondi e con gli occhi azzurri.
Facendo una rapida carriera, Kappler viene nominato tenente colonnello nel 1943. È un anno particolarmente drammatico per l’Italia: quando gli americani invadono la Sicilia, re Vittorio Emanuele III, comprendendo che la guerra è perduta, fa arrestare Mussolini, che aveva messo a capo del governo un ventennio prima.
Per sfuggire alla rappresaglia dei tedeschi, l’8 settembre il re e la sua sua famiglia scappano nell’Italia del sud, chiedendo protezione all’esercito alleato. Come temevano i tedeschi, gli italiani li hanno traditi ancora una volta. O, almeno, così la vedono loro.
Questo è il momento di Kappler che, con i rinforzi appena giunti dalla Germania, prende il controllo di Roma. Il suo primo successo è la liberazione di Mussolini, che si trovava prigioniero sulle montagne dell’Abruzzo.
Il Duce torna alla guida dell’Italia, anche se, di fatto, comandano i tedeschi.
Kappler organizza anche il trasferimento, o meglio, la rapina, dell’intera riserva aurea italiana. 127 tonnellate d’oro (pari a 5 miliardi e 715 milioni di euro odierni) spariscono misteriosamente sulle Alpi mentre vengono trasportate in Germania: non se ne saprà più niente.
Il 26 settembre, Kappler chiede altro oro, stavolta ai dodicimila ebrei di Roma. Ne vuole 50 chili in 36 ore, altrimenti 200 di loro verranno deportati. Malgrado l’accordo, due settimane dopo più di mille ebrei vengono comunque inviati in Germania: solo 16 di loro scamperanno allo sterminio.
L’attentato di via Rasella
La situazione nella capitale diventa incandescente: l’esercito americano è alle porte, ma non è ancora in grado di entrare, mentre i partigiani cercano di contrastare in qualche modo i tedeschi.
Il 23 marzo 1944, alcuni partigiani piazzano una bomba in via Rasella, uccidendo 33 altoatesini arruolati nell’esercito tedesco.
Hitler in persona dà l’ordine di uccidere 10 prigionieri italiani per ogni soldato morto. Kappler va a cercare le possibili vittime nelle carceri, dove ci sono diversi partigiani di Bandiera Rossa, un gruppo comunista indipendente, ed ebrei.
L’eccidio avviene fuori città, alle Fosse Ardeatine.
Neanche un mese dopo, Kappler ordina un rastrellamento nel quartiere Quadraro, arrestando un migliaio di partigiani, o presunti tali, che invia nei campi di concentramento. Solo la metà di loro si salverà.
Finita la guerra, Kappler viene processato a Roma nel 1947. Il colonnello dichiara di aver sempre obbedito agli ordini di Berlino, e quindi di non essere punibile. La sua posizione giuridica è incerta, dato che le convenzioni di guerra dell’epoca in certe condizioni non vietano le rappresaglie.
La strage delle Fosse Ardeatine, comunque, appare così terribile che alla fine Kappler viene condannato all’ergastolo per le cinque vittime in sovrannumero. L’ufficiale sconta la pena nel carcere militare di Gaeta.
La prigionia di Kappler
Nel 1959 chiede di poter andare a pregare alle Fosse Ardeatine in segno di pentimento, ma la sua pretesa, considerata una provocazione nei confronti dei parenti delle vittime, viene respinta, così come le successive richieste di grazia.
In Germania, la madre di Kappler, Paula, mobilita l’opinione pubblica per ottenere la sua liberazione, convincendo presidenti e cancellieri tedeschi a inoltrare richieste di clemenza che rimangono inascoltate dalle autorità italiane. La donna muore a 94 anni, all’inizio degli anni settanta, senza poter riabbracciare il figlio.
Kappler, ormai uno dei pochissimi nazisti rimasti in prigione, ogni mese riceve la generosa pensione del governo tedesco destinata agli alti ufficiali dell’esercito, che spende soprattutto per comprare i pesci tropicali del suo grande acquario.
Passa il tempo suonando il violino e leggendo le lettere che riceve da numerose ammiratrici tedesche. La più affezionata è Anneliese Wenger, nata nel 1925, figlia di un suo vecchio camerata.
La donna aveva fatto l’infermiera sul fronte russo e si era sposata con un ufficiale tedesco, dal quale aveva poi divorziato perché la maltrattava. A questo punto si era rimessa a studiare ottenendo il diploma di fisioterapista.
Dopo avergli inviato una propria fotografia insieme a un pacco di dolci, Anneliese inizia a visitare assiduamente Kappler.
“Mi sono innamorata di lui”, dice, “quando mi ha parlato delle Fosse Ardeatine e della sua tragedia personale senza recriminare né ribellarsi alla condanna inflittagli dalla giustizia italiana”.
All’età di 49 anni, nel 1972, Anneliese corona il proprio sogno sposando l’amato in carcere.
La foto del matrimonio ritrae una donna bionda e robusta in tailleur di velluto con tre rose rosse in mano (amore, speranza, fede), accanto a un esile ometto.
Da quel momento, la fisioterapista lotta con tutte le forze per la liberazione dello sposo che, tra l’altro, viene colpito da un tumore al retto. Il cancro gli provoca un grave dimagrimento e continui stati febbrili.
Nel 1976, i medici dichiarano che il vecchio criminale di guerra ha solo pochi anni di vita.
Ad aggravare la situazione c’è il rifiuto di Kappler alle terapie ospedaliere, dato che accetta soltanto i rimedi omeopatici suggeriti dalla moglie.
Le autorità italiane, messe sotto pressione da quelle tedesche, trasferiscono Kappler al terzo piano dell’ospedale militare romano del Celio. Per poter giustificare il ricovero in quella sede, il tedesco viene riconosciuto “prigioniero di guerra”. Un’assurdità, perché l’Italia non è in guerra con la Germania.
Al prigioniero viene concessa una certa libertà di movimento, anche se due carabinieri fanno sempre la guardia davanti all’ascensore.
La fuga in una valigia
1977, mezzanotte di Ferragosto.
Anneliese aiuta il marito, che ormai pesa solo 48 chili, a rannicchiarsi dentro una grossa valigia.
Dopo aver messo il cartellino “non disturbare” alla porta e fatto un fagotto sotto le coperte, la donna attraversa il corridoio dell’ospedale trascinando la grossa valigia senza che i carabinieri le chiedano niente.
Arrivata alla finestra del bagno, priva delle sbarre regolamentari, tira fuori il marito dalla valigia e lo imbraga in un corsetto per scalatori. Dopo aver attorcigliato la corda ai robusti cardini delle imposte, cala il marito per sedici metri fino a terra.
Uscita dall’edificio, lo fa entrare in una 132 rossa che aveva parcheggiato lì vicino e, guidando indisturbata, imbocca l’autostrada. Dopo un po’, andando a 180 km orari, l’auto fonde il motore.
Abbandonando il veicolo sul ciglio della strada i due salgono sull’Opel bianca che li sta seguendo da Roma, guidata da uno dei tre figli di Anneliese.
Il confine del Brennero viene raggiunto verso le 8 del mattino.
Il tutto è stato possibile, secondo alcuni, grazie all’aiuto e ai contributi economici di ex membri delle SS. Del resto, il Comitato per la liberazione di Kappler conta 6500 soci.
La fuga viene scoperta da una suora alle 10 del mattino, quando il prigioniero è ormai espatriato.
Herbert Kappler viene accolto in casa della moglie a Soltau, in Bassa Sassonia, dove riceve la visita di ammiratori e giornalisti.
Roma esige che i tedeschi lo rimandino subito indietro, ma questi ultimi rispondono che, in quanto prigioniero di guerra, Kappler ha esercitato legalmente il diritto alla fuga.
In Italia infuriano e polemiche. Vito Lattanzio, il ministro della Difesa responsabile della detenzione di Kappler, è costretto a dare le dimissioni. Tuttavia, pochi giorni dopo, lo stesso Lattanzio verrà nominato ministro della Marina mercantile.
I due carabinieri di guardia e il loro capitano vengono arrestati e poi rilasciati senza processo.
Sei mesi dopo la fuga, nel febbraio del 1978, Kappler soccombe al male che lo stava divorando.
Al funerale, alcuni nostalgici lo salutano per l’ultima volta alzando il braccio nel saluto nazista.
Dieci anni più tardi, Anneliese scrive un libro intitolato “Ti porto a casa”. Per evitare che venga a presentarlo, il governo le vieta l’ingresso in Italia. Lei ci viene lo stesso nel 1993, per protestare dal presidente della Repubblica, ma viene arrestata davanti al Quirinale e rimpatriata.
La fuga di Kappler ha destato sempre molti sospetti: possibile che nessuno si fosse accorto di nulla? E come spiegare l’incredibile concessione dello status di prigioniero di guerra?
Qualcuno sostiene che sia stata un’evasione concordata segretamente tra il governo italiano e quello tedesco per ottenere un grosso prestito dalla Germania. Che, puntualmente, è avvenuto proprio in quei mesi del 1977.
(Per leggere gli altri articoli sui delitti famosi pubblicati da Giornale POP clicca QUI).