GLI ITALIANI CHE DISEGNANO COME AMERICANI

I fumetti in stile americano non li disegnano più nemmeno gli americani stessi, ora che si è imposto lo stile fotografico o comunque realistico. Quindi per “fumetti americani” qui intendiamo i comic book di un tempo. Uno stile dinamico e insieme elaborato che in Italia non riesce mai a imporsi, anche se, nel corso degli anni cinquanta, ha in Roy D’Amy (Rinaldo Dami) e altri autori dei rappresentanti di tutto rispetto. E D’Amy, disegnatore allo stesso livello dei migliori americani, non è nemmeno abbastanza ricordato, dato che su internet non si trovano suoi disegni.

La ristampa del Sergente York, uno dei personaggi creati da Roy D’Amy
Un altro autore “americano” è Hugo Pratt. Soprattutto fino agli anni sessanta, quando disegna L’Ombra per il Corriere dei Piccoli aiutato dal sottovalutato Stelio Fenzo, piuttosto che con Corto Maltese (soprattutto dopo il primo episodio).
Anche se dagli anni trenta tutti i disegnatori “avventurosi” cercano di imitare Alex Raymond, la casa editrice che si avvicina anche qualitativamente allo stile americano (non solo nelle intenzioni) è la Arnoldo Mondadori. Merito degli sforzi di due giganti poco celebrati come Cesare Civita, direttore generale della casa editrice, e lo sceneggiatore Federico Pedrocchi. Tanto che Saturno contro la Terra, il fumetto scritto da Cesare Zavattini e Federico Pedrocchi, e disegnato da Giovanni Scolari, viene pubblicato anche in versione comic book all’inizio degli anni quaranta, prima che l’Italia entrasse in guerra con gli Stati Uniti.
Negli anni del secondo dopoguerra, i fumetti della Mondadori conoscono una relativa crisi per almeno un decennio, mentre si affermano gli economici albetti formato striscia di Casarotti, Bertasi (Bonelli) e di altri piccoli editori. Lo stesso Sergio Bonelli rimprovera alla madre Tea Bertasi (1911-1999), proprietaria della casa editrice (l’ex marito Gian Luigi è “solo” un collaboratore), di avversare lo stile americano, tanto da costringere l’amico “caniffiano” Hugo Pratt a emigrare in Argentina. Però non è del tutto vero, sia perché, pur non riuscendoci quasi mai, all’epoca tutti cercano di imitare gli americani, sia perché, oltre a pubblicare i fumetti di Roy D’Amy, Gian Luigi Bonelli tenta di lanciare Pluto, un supereroe disegnato dall’americanizzante Paul Campani.
Un albo graficamente molto “americano” della Mondadori è Pecos Bill, del 1949, scritto dal grande Guido Martina e disegnato da Raffaele Paparella e altri.
Sempre tra la fine degli anni quaranta e l’inizio dei cinquanta alcuni disegnatori italiani, come Enrico Bagnoli, vanno a farsi le ossa sui comic book direttamente in America. Alberto Giolitti e il suo dotatissimo allievo Giovanni Ticci collaborano con gli americani fino agli anni sessanta (abbiamo presentato qui la loro ottima versione di King Kong).
Ecco, per esempio, alcune pagine di un episodio di Futura, pubblicato nel 1949, scritto da uno sconosciuto con lo pseudonimo di John Douglas e disegnato da Enrico Bagnoli. Si tratta della versione femminile di Flash Gordon, con tanto di didascalie al posto dei balloon. L’episodio è tratto dal numero 60 di Planet Comics della Fiction House.
Di Enrico Bagnoli, nato nel 1925 e scomparso nel 2012 mentre disegnava in stile fotografico Martin Mystère, sarebbe interessante che qualcuno scrivesse un’accurata biografia. Negli anni sessanta, Bagnoli dirige per la Mondadori i Classici Audacia, una serie di albi monografici nella quale si alternano diversi personaggi francofoni fino a quel momento sconosciuti in Italia: da Blake e Mortimer a Ric Roland. In seguito, Bagnoli assume la direzione di Superman e Batman, pubblicati sempre dalla Mondadori, che prendono il posto del settimanale Nembo Kid. Poi finisce al Corriere dei Piccoli, lo storico settimanale che cerca di contrastare il calo delle vendite riprendendo i personaggi presentati dai Classici Audacia.
In questo contesto è particolarmente interessante una delle effimere pubblicazioni in formato comic book che Bagnoli dirige nel 1968 per la Mondadori, con i testi di Parke Stobo (alias…?) e gli ottimi disegni di Raffaele Paparella: Dyno, il giovane sceriffo motorizzato protagonista di un western contemporaneo.
Ne escono solo due numeri. Non hanno maggior fortuna neppure gli altri due “comic book italiani” della Mondadori che lo affiancano nello stesso anno: il pilota Nic Cometa di Pier Carpi e Sergio Zaniboni; e la detective Strippy di Renata Pfeiffer e i fratelli Montecchi.
La rapidità con la quale l’esperimento si esaurisce dimostra che la Mondadori non sostiene l’iniziativa editoriale, limitandosi a osservarne l’effetto sul mercato.
Ammirate le pagine iniziali del primo episodio di Dyno disegnate da Raffaele Paparella e poi ditemi se, mancanza del colore a parte, questo non è un perfetto comic book.
Un decennio prima, nel 1959, il promettente Sergio Bonelli realizza la breve serie del Giudice Bean, firmandosi come al solito con lo pseudonimo di Guido Nolitta. A illustrarla, un altro disegnatore dallo stile squisitamente americano: Sergio Tarquinio.
Tarquinio, come Paparella e altri, rappresenta quello che avrebbe potuto essere il fumetto italiano veramente “americanizzato” e non è stato.
Negli anni sessanta, Tarquinio entra a far parte del gruppo di disegnatori della Storia del West di Gino D’Antonio, e seguendo quest’ultimo ne adotta il nuovo stile freddamente sintetico. Che si porterà dietro, sempre al seguito di D’Antonio, su Il Giornalino.
Dopo il flop di Dyno, Raffaele Paparella va a lavorare in Francia per l’editore lionese Lug, specializzato nelle edizioni locali dei fumetti western italiani. Vi rimane fino alla cessazione della propria attività professionale, a metà anni ottanta.
Insomma, gli autori “veramente americani” noi italiani non li vogliamo, e quando li abbiamo li mandiamo all’estero (mi viene in mente anche Antonio Canale, il disegnatore di Amok) o gli facciamo cambiare stile.
Tanti occhi tanti punti di vista, caro Pensaurus, ma mi permetto di aggiungere che personalmente considero lo stile dei comic books americani duro e puro quello per cui fondamentalmente nessuna vignetta ha senso fuori dalla pagina e dalla storia per cui era stata realizzata. Radicale, I know. Il vero nemico del fumetto è il movimento ergo i cartoonists + dotati tentano in tutti i modi di raccontarlo nella pagina ferma.
A volte il mercato apprezza – King Kirby in parecchie pagine della sua lunghissima carriera, Rick Leonardi, Walter Simonson, Jon Bogdanove, Mark Bagley e Bruce Timm , to name a few – ed a volte meno – Steve Leialoha non solo come inchiostratore o Tony Salmons – e credo meriti una menzione d’onore tra i non compresi Mark Badger che in una intervista al collega Michel Fiffe spiega come le sue cose per Marvel e DC
( la mini di Martian Manhunter, tre numeri di Excalibur ed alcuni speciali di Legends of the Dark Knight tanto x stare a materiale tradotto da noi ) incontrassero il gusto del pubblico, ma fossero temute dagli editors perché troppo distanti dal segno imperante in quegli anni e cioè fine anni ottanta e tutto il decennio successivo.
Il Bats ed il Prime di Norm Breyfogle ( quanto mi manchi Norm ! ) non sono mai in posa per un dagherrotipo nelle pagine in interne e quasi mai persino nelle covers ed il disegnatore ricorre a tutti gli sporchi trucchi del mestiere comprese le linee cinetiche.
Un modo di raccontare che funziona alla perfezione quando si tratta di proporre tizi che saltellano o volano e che affrontano mostri ed alieni, meno per rendere cose come la Beverly di Nick Drnaso o la Negativa di Baronciani o Trama di Ratigher.
Negli USA il sempre maggiore utilizzo di supporto fotografico nel fumetto mainstream e cioè supereroico è legato al fatto che si cerca di catturare il pubblico che ha visto quei personaggi al cinema e vuole ritrovarli sulla carta tali e quali. Curioso perché l’estetica degli Avengers dello MCU è presa paro paro dagli Ultimates di Millar e Hitch.
Personalmente a me piacerebbe un tascabile in b/n con stile Gregory Panaccione o Chris Blain, ma mi chiedo quanto venderebbe in edicola o in fumetteria. Qualcosa come Quantum Leap incontra Deadman della DC. No picchiatelli in costume, ma un tizio che prende il posto di altri. Noi lo vediamo sempre come è davvero. Potrebbe essere come Granny Goodness vista da Andy Suriano. Per il resto del mondo è di volta in volta un mobster, un giornalista in pericolo, una vamp etc . No dida di pensiero. Ritmo indiavolato. Stile nervoso. Sfondi accennati. Parecchi colpi di scena. Continuity praticamente inesistente. Mm. Ciao ciao
Ma come, mi fai la crociata anti-fotografari e non ti accorgi che nella prima pagina di Strippy hanno ricalcato il volto di Maurizio Arcieri (peraltro citato) e quello di Sean Connery?
Infatti non ho messo i fratelli Montecchi tra gli “americani”: quella copertina è inserita nel contesto dei tre comic book all’italiana (nel formato lo sono tutti, per lo stile solo Dyno di Paparella). Anche il “comic book” di Zaniboni, Nic Cometa, è fotografico.
Rivedere un Tarquinio d’annata è sempre un piacere. Mentre confesso che Paparella non mi ha mai entusiasmato troppo, le sue tavole mi hanno sempre dato un idea di “finto”. E sulle tavole postate qui, mentre quelle di Tarquinio sono tanto “classiche” che me lo posso immaginare come un comic book, quelle di Paparella non potrebbe mai passare per un americano classico, fanno davvero troppo “1968”. potrebbero passare per quelle di un autore underground, quello sì.