I 10 FILM PIÙ BRUTTI DI 10 GRANDI REGISTI

Può un maestro del cinema sbagliare? Può un grande regista, autore di film unanimemente riconosciuti come capolavori, dirigere schifezze? La storia dice di sì.
Abbiamo deciso di considerare “brutto” un film con un punteggio inferiore a 50 sul famoso sito di metacritica cinematografica Rotten Tomatoes, ma naturalmente alla fine ognuno è libero di pensarla come vuole.
Sulla base di questa definizione abbiamo individuato dieci “passi falsi” di autori famosi, dieci film che possiedono comunque fascino e che vale la pena di rivedere.
“Havana” di Sydney Pollack: 24 punti
Il cinema non è mai una semplice somma degli addendi e in Havana, nonostante il riproporsi del tandem di un ottimo regista come Sydney Pollack e del suo attore feticcio Robert Redford, il piano non funziona. La pellicola rappresenta un tentativo mal riuscito di riproporre un genere di cinema, quello classico-sentimentale (Casablanca il suo archetipo ancestrale) che andrebbe affrontato da prospettive inconsuete per realizzare qualcosa di nuovo e interessante.
Un genere di film insidioso soprattutto quando, come in questo caso, risulta contaminato con il tema politico della rivoluzione castrista, che invece di aggiungere interesse alla storia non fa che moltiplicare le trame e le sottotrame diluendo impietosamente l’intreccio iniziale.
La trattazione degli aspetti politici risulta estremamente semplicistica, gli orrori della guerra civile sono risolti con semplici spari in lontananza, fuori campo, e anche il racconto del triangolo amoroso, che avrebbe dovuto essere il fulcro del film, finisce per impantanarsi in un cumulo di dialoghi banali.
“Hook” di Steven Spielberg: 29 punti
Qualche anno fa lo stesso Steven Spielberg disse, in una intervista alla radio: “Voglio vedere di nuovo Hook perché non mi è proprio piaciuto quel film, e spero che un giorno rivedendolo ne amerò qualcosa”. Diciamo la verità, Spielberg una buona dose di sentimentalismo edulcorato l’ha infilato un po’ dappertutto. Ma mai in quantità industriali come in Hook, il film sulla storia di Peter Pan. Qui esagera proprio.
Il film sembra una enorme palude di melassa dove lo spettatore rimane intrappolato e finisce con l’affondare. Probabilmente il personaggio creato dallo scrittore inglese James Matthew Barrie poco si presta alle trasposizioni. Anche il cartone che ne fece la Disney non viene ricordato tra quelli più riusciti della casa di Burbank. Del resto, quando ci si mette alla ricerca dell’Isola che non c’è non sempre la si trova…
Tra le cose peggiori del film c’è il personaggio di campanellino interpretato da Julia Roberts, che non seppe farsi amare né dietro le macchine da presa ne davanti… guadagnandosi, presso l’intera troupe, il soprannome di Tinker Hell (Hell significa inferno) invece di Tinkerbell (Campanellino, appunto, che avrebbe dovuto essere interpretato da Meg Ryan). Come esempio dei suoi capricci si pensi che, dovendo recitare la maggior parte delle scene a piedi nudi, pretese una assistente dedicata al solo compito di tenerglieli puliti.
“Passion” di Brian De Palma: 34 punti
Prometteva molto, questo ritorno di Brian De Palma alle atmosfere morbose e torride dei suoi primi indimenticabili capolavori come Vestito per uccidere e Omicidio a luci rosse. Il regista ripesca perfino Pino Donaggio per la colonna sonora e va giù pesante con il lesbismo e con il tema del doppio, insomma, con certe sue ricorrenti ossessioni. Ma Passion ci mette più di un’ora a ingranare: è lento e vuoto; l’intrigo è risibile e le due attrici non hanno l’ambiguità necessaria per infondere all’atmosfera la necessaria “torbidità”.
La visione del film rivela un basso profilo nelle modalità di realizzazione e nella tecnologia utilizzata, dichiaratamente low cost. Il regista è ormai fuori dal giro che conta e dalle grandi produzioni, si vede che lavora intristito e carico della malinconia dell’esiliato.
Nonostante gran parte delle scelte registiche offrano degli interessanti spunti di riflessione, non si può non sottolineare come la maggioranza delle scene rientrino nel “già visto”, smorzando quindi ogni possibilità di entusiasmo di fronte a un’opera che fondamentalmente non aggiunge nulla di nuovo alla carriera depalmiana.
“La camera verde” di Francois Truffaut: 38 punti
La camera verde è certamente l’opera più tetra e funerea di un regista che ha costruito la sua carriera su ben altre atmosfere. Francois Truffaut ha realizzato un film sul ricordo dei morti, sulla loro permanenza nella memoria dei vivi. Il personaggio principale è un sopravvissuto che vive nel passato, completamente immerso nel ricordo di chi non c’è più.
Il tema condiziona in maniera eccessiva lo sviluppo filmico, determinandone l’eccessiva lentezza di fondo che non riesce mai a trasformarsi in profondità di racconto. L’atmosfera generale risulta pesantemente claustrofobica, incentrata su riprese ravvicinate e primi piani che non lasciano spazio all’ambiente circostante.
La leggerezza narrativa che costituisce la caratteristica principale del miglior Truffaut qui è letteralmente bandita a favore di un’esposizione volutamente monocorde che finisce per imprigionare il film in una gabbia formalistica straniante. Alla fine ci troviamo di fronte a un film “a tesi” che non riesce a sostenere in modo godibile le posizioni che prende.
“Hannibal” di Ridley Scott: 39 punti
Dopo Il Gladiatore, Ridley Scott visse un momento magico: l’intera industria del cinema era ai suoi piedi. Il regista di South Shields poteva chiedere letteralmente qualsiasi cosa. Scott, mentre girava Il Gladiatore, aveva già messo gli occhi su “Hannibal”, il romanzo di Thomas Harris uscito nel 1999, sequel del famosissimo ”Il silenzio degli innocenti”. Non ci furono problemi per Dino De Laurentis nel mettergli a disposizione un budget di 90milioni di dollari, che fu in gran parte sprecato.
La sceneggiatura del film Hannibal non rispetta per niente la storia del libro. Cosa incomprensibile se si pensa che stiamo parlando di un grande romanzo. In particolare risultano due passi falsi giganteschi il cambiamento del finale e l’eliminazione di personaggi chiave della trama immaginata da Harris.
Scott punta molto sui primi piani, cercando di costruire un’introspezione psicologica che nella sceneggiatura non c’è. La pellicola risulta quindi una scommessa persa, e ciò è ancora più grave se si pensa che gli ingredienti per riuscire c’erano tutti. Il film vorrebbe costruire un’atmosfera di inquietudine, ma non ci riesce. Rimane soltanto qualche buona immagine qui e là a incorniciare una scialba esteriorità. E il film non decolla mai.
“Convoy” di Sam Peckinpah: 42 punti
Insieme a Killer Elite è il peggior film di Sam Peckinpah. Convoy è un prodotto degli anni della decadenza del regista, troppo preso a lottare con i propri demoni (alcol e droghe) per pensare a dirigere sul serio. Il film risulta una sorta di insipida commediola on the road senza né capo né coda. Kris Kristofferson interpreta il personaggio di Anatra di Gomma, un camionista rivoluzionario che sfiderà la legge avvalendosi dell’aiuto dei suoi colleghi motorizzati.
Inutile cercare qualche tocco del regista che ci ha regalato nella sua carriera perle indimenticabili. Convoy assomiglia a qualcosa che un fumatore di lunga data potrebbe sputare in una mattina particolarmente brutta.
Alcuni amici intervennero per dare una mano al sofferente Peckinipah. James Coburn è accreditato come uno dei registi della seconda unità, ma secondo il libro di David Weddle del 1994, “If They Move… Kill ‘Em!”, ha in realtà girato gran parte del film, mentre Peckinpah rimaneva a smaltire le sbornie nel suo camper.
Il prodotto finale può essere considerato più un pastiche che un singolo lavoro d’autore. Tuttavia, anche se Convoy non riesce a concretizzarsi in un insieme coerente, alcune sequenze fanno capolino dal caos, facendo rammaricare lo spettatore attento per le possibilità sprecate.
“Casanova” di Federico Fellini: 43 punti
Il Casanova di Federico Fellini viene alla luce nel 1976, dopo un’interminabile serie di ripensamenti del regista, di complicazioni legate ai continui cambi nella produzione. La gestazione del film fu difficoltosa fin dall’inizio, soprattutto a causa del difficile rapporto tra il regista e il suo personaggio. Fellini cominciò a rendersene conto parlandone con i giornalisti in maniera feroce, criticandone i lati che lo avevano reso una sorta di prototipo del maschio italiano.
Un odio esagerato, quello verso il Casanova, tanto da scatenare un vero e proprio caso: un autore che si ribella contro il suo stesso protagonista. Questa idiosincrasia si sente nel corso di tutto il film, che risulta meccanico, ripetitivo e senza anima.
Un nostalgico canto del cigno di un regista che amava tanto la vita. Il film non lascia nessuno spazio a quella magica fantasia ammaliatrice che ha reso immortale l’autore riminese. Alla fine Fellini si riappacificherà con Donald Sutherland, colpevole solo di avere interpretato per lui l’avventuriero veneziano, ma non con il suo film che rimane negli esiti una opera fragile e incompiuta.
“Il pianeta delle scimmie” di Tim Burton: 45 punti
Se non possiamo che ammirare il coraggio con il quale il visionario Tim Burton si è messo in gioco confrontandosi con uno dei capolavori del cinema di fantascienza, non possiamo però non registrare la pessima riuscita dell’impresa. Il folle tocco di Tim Burton, sempre in bilico tra kitsch e grottesco, non si è rivelato miracoloso come molti speravano.
La sua versione de Il pianeta delle scimmie, infatti, delude sotto tutti i punti di vista. Non convincono né la storia, stravolta rispetto all’originale, né le interpretazioni degli attori. Se le scimmie raggiungono comunque la sufficienza, sono i personaggi umani la parte più carente del film, a causa soprattutto di una sceneggiatura incapace di renderli vivi. In qualche momento il tocco dell’autore si sente, come nella cena a casa del senatore o quando la piccola scimmietta deve scegliere il proprio cucciolo umano, ma è ben poca cosa rispetto alla “grezzezza” dell’insieme.
Manca troppo di Burton in questo film, la sua geniale fantasia (vedi Nightmare before Christmas e Mars attacks!), le sue atmosfere cupe (Il mistero di Sleepy Hollow), i suoi personaggi stralunati e surreali (Edward Mani di Forbice o Ed Wood), le sue scenografie sontuose e gotiche (Batman e Batman 2). Se non ci fosse la sua firma sul film ci sarebbe da dubitare che sia realmente suo.
“Miami Vice” di Michael Mann: 47 punti
La posta in gioco era alta: rifare Miami Vice, uno dei telefilm più celebri e ancora oggi oggetto di culto per numerosi appassionati. Significava andare a mettere le mani su uno dei momenti fondamentali della cultura pop di cui fai parte: per rifare Miami Vice devi inevitabilmente tradire un immaginario consolidato, intervenire su qualcosa che per molti è stata un pezzo di vita. È una situazione da cui non si esce vivi quasi mai.
Miami Vice versione 2006 di Michael Mann è lontano anni luce dall’omonimo serial che, tra il 1984 e il 1989, ottenne un share strepitoso dando fama a Don Johnson e Philip Michael Thomas. Tanto il Miami Vice telefilm era allegro e scanzonato, quanto il Miami Vice film è una pellicola cupa, violentissima e nichilista. La scelta di Colin Farrell come protagonista, a quanto pare avallata dallo stesso Don Johnson, non ha giovato all’economia complessiva del film, che soffre di una interpretazione non proprio indimenticabile.
Alla fine ne vien fuori un film realizzato con grande dispendio di mezzi ed estrema perizia, ma completamente privo di cuore. I personaggi sono ultrastereotipati, piazzati a bella posta al di fuori del contesto in cui sono nati, e rimessi a lavorare in una situazione a cui faticano ad adattarsi. Nessun coinvolgimento emotivo e scarsa convinzione generale.
“Un sogno lungo un giorno” di Francis Ford Coppola: 48 punti
È rimasto negli annali come il film che sconvolse la carriera di Francis Ford Coppola, il quale, per ripagare i debiti accumulati a causa dell’insuccesso commerciale della pellicola, dovette vendere la sua casa di produzione (la Zoetrope), ridimensionare i propri titanici progetti e dire addio per molti anni ai suoi sogni di autonomia creativa e finanziaria. Sembra impossibile che questo strano film sia stato girato dal regista subito dopo il monumentale Apocalypse Now.
Risulta abbastanza difficile persino definire con precisione il genere a cui appartiene questo ibrido tra il musical e il fantasy, che abbonda d’immaginazione figurativa e colori brillanti. Ci si meraviglia di certe dichiarazioni dello stesso Coppola, che rivelano l’amore per questo lavoro nato da un’intuizione spontanea: “Ho fatto quello che avevo voglia di fare, come un bambino che disegna. L’ho fatto per me, per poterlo vedere”.
Il tallone d’Achille del film è la sceneggiatura, che non è debole o mal costruita, ma volontariamente tenuta allo stato di abbozzo. Coppola, sceneggiatore ed esperto di costruzioni psicologiche, certo ha intenzionalmente voluto questo risultato. È un film sui sentimenti, ma che affida alle sole scenografie e alle canzoni il compito di farli arrivare allo spettatore. Di fatto la psicologia dei personaggi non è per niente approfondita e tutto il significato del film risiede in immagini visibilmente esagerate e antinaturalistiche.
Casanova, Convoy, La camera verde, Il pianeta delle scimmie, brutti?!? Al massimo non perfettamente riusciti, ma non certo CASANOVA che è un capolavoro.
Mah, Convoy è un piccolo capolavoro, anche grazie alla colonna sonora e a un Kris Kristofferson che come cantante non è memorabile, penso, ma come attore in un certo senso versione brillante di Keith Carradine funziona benissimo. Peraltro il giudizio critico è copiato pari pari dal commento di un lettore su un altro sito. Posso permettermi di cheidere se l’autore li ha visti, questi film?
Sono d’accordo che “Casanova” sia un film mortifero e una delle peggiori rappresentazioni del personaggio Giacomo Casanova (Fellini vuole chiaramente distruggere il veneziano, odia ciò che per lui rappresenterebbe…). Meno d’accordo su “Convoy” (cult-movie di alcuni miei amici camionisti, insieme a “Il bestione”!) che invece trovo curiosamente divertente e gradevole (ma io non faccio testo, giacché ho sempre detestato il Peckinpah, ehm… “migliore”…). Tim Burton è un presuntuoso megalomane, doveva lasciarlo proprio stare “Il pianeta delle scimmie” (ma avrebbero dovuto limitarlo a un solo film, quello del 1968, gli stessi produttori che vi fecero seguire invece la vecchia e tediosa serie che ben conosciamo…). Almeno, questo è il mio pensiero.
Convoy fu un successo ai botteghini, comunque, e uno dei maggiori incassi di Peckinpah: 45 milioni di dollari. Getaway, che fu sicuramente un successo, ne incassò 36. (fonte: the-numbers.com)
“Tanto il Miami Vice telefilm era allegro e scanzonato, quanto il Miami Vice film è una pellicola cupa, violentissima e nichilista.”. Veramente Miami Vice è stato (insieme a Hill Street) il serial poliziesco più innovativo di quell’epoca proprio perché aveva il coraggio di scegliere le soluzioni spesso più pessimiste e meno rincuoranti, non certo il classico telefilm anni ’80 che si chiudeva col fermo immagine degli eroi che ridono per una gag o una battuta. Mann nel trasportarlo nel presente ha solo tolto l’estetica glam modiaola, ricavando un poliziesco adulto, dove cioè i poliziotti non sparano battute ogni due minuti e se la cavano senza un graffio quando l’auto va fuori strada ed esplode (qualcuno ha detto Bad Boys ?!?!).