L’EPOCA D’ORO DEGLI SPAGHETTI THRILLER

GLI SPAGHETTI THRILLER

Nel 1970 esce nelle sale italiane L’uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento. Niente, nel cinema, sarà più come prima. Il giovane regista romano mette insieme la morbosità e l’ossessione presenti nei film dell’amatissimo predecessore Mario Bava allo straniamento e alla nevrosi che caratterizzano le pellicole di Michelangelo Antonioni, ottenendo un prodotto profondamente contemporaneo: lo spaghetti thriller.

L'EPOCA D'ORO DEGLI SPAGHETTI THRILLER
Fin dall’inizio Argento, apprestandosi a creare un genere, si inventa un vocabolario personale fatto di coltellate feroci in dettaglio, soggettive di ripresa scioccanti, musiche catalizzanti, spazi cittadini che diventano non luoghi notturni, destrutturati e dechirichiani.

GLI SPAGHETTI THRILLER
Il successo del capostipite dà subito origine da una parte a una sorta di sequel firmati dallo stesso autore, che approfondiscono e definiscono ulteriormente il genere, dall’altra a interpretazioni, non sempre personali, da parte di artigiani che in quegli anni si cimentano nella realizzazione degli spaghetti thriller.

L'EPOCA D'ORO DEGLI SPAGHETTI THRILLER
Seguendo l’esempio di Dario Argento, un pugno di cineasti di razza realizzarono opere interessanti dense di intuizioni filmiche che influenzarono generazioni di registi e che ancora oggi sono oggetto di citazioni sulle due sponde dell’oceano.

 

L’uccello dalle piume di cristallo – Dario Argento, 1970

Fin dalle prime inquadrature questo film ti prende per mano portandoti da qualche parte oltre l’arcobaleno del Mago di Oz, dove tutto è nuovo, diverso e straniante. La lunga scena iniziale con la ragazza agonizzante dall’altra parte del vetro mette in scena un universo alieno, dove il surreale lotta con il reale per prendere il sopravvento.

L'EPOCA D'ORO DEGLI SPAGHETTI THRILLER
Quella prigione di vetro assomiglia troppo a un palcoscenico per non esserlo. Un teatro dell’assurdo dove viene messa in scena la rappresentazione più importante di tutte: la commedia della vita. E allora la vita diventa uno spettacolo ambiguo di cui ti sfugge il senso, non importa quante volte rivedi la scena, quante volte la analizzi nella tua mente, l’interpretazione delle cose che accadono porta con sè ogni volta un margine d’errore, la realtà diventa allora inafferrabile. Sembra una cosa, ma potrebbe essere qualcos’altro e quasi sicuramente lo è.

In questo universo inospitale fatto di vicoli soffocati dalla nebbia, di androni immersi nel buio e architetture sghembe, Dario Argento ci guida attraverso un percorso di conoscenza dalle tenebre alla luce. E la luce nel finale arriva attraverso il suono. Il suono di un uccello che come nelle fiabe ci mostra la via verso la rinascita e il raggiungimento di un livello superiore di consapevolezza.

 

Reazione a catena – Mario Bava, 1971

Film fondamentale di Mario Bava, sospeso com’è tra sforzo figurativo e tendenza all’astrazione, tra a fuoco e fuori fuoco, tra normalità e follia. L’inquietudine ci cattura già dai titoli di testa, persi tra i mille riverberi che si formano sulla superficie dell’acqua di quella baia oscura e misteriosa che è la vera protagonista del film.

L'EPOCA D'ORO DEGLI SPAGHETTI THRILLER
Uno sguardo poetico al cielo e poi una mosca cade per essere inghiottita da una torbida acqua scura presaga di morte. Il film si apre con la struggente morte della contessa Donati, preannunciata da un’esplosione di rossi che rifulgono nei tappeti, nelle poltrone e negli abiti della donna.

Iconica la scena della carrozzella caduta con la ruota che gira sempre più piano, mentre la donna agonizza per poi arrestarsi completamente con l’ultimo rantolo della contessa strangolata. Altro momento indimenticabile è la morte dei due giovani che vengono trafitti durante un amplesso, dove i loro gemiti finali ricordano quelli di un orgasmo a rimarcare una volta di più la vicinanza ineluttabile tra eros e thanatos.

 

Spasmo – Umberto Lenzi, 1974

Lo scopo del regista è costruire un’atmosfera di vertigine che vada a costituire la vera ossatura del film. Per raggiungere questo risultato, Umberto Lenzi è disposto a sacrificare tutto il sacrificabile. Sacrifica la coerenza della trama, piena di personaggi senza spessore e verosimiglianza. Sacrifica i dialoghi ridondanti che non aggiungono nulla alla potenza delle immagini. Sacrifica lo sviluppo della storia, che procede a scatti, su un percorso a zig zag che spesso smentisce quanto appena affermato e sovente ritorna sui suoi passi.

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Sacrificato tutto ciò rimane una Porto Ercole inquietante, completamente spogliata della sua veste vacanziera e immersa in un’atmosfera oscura che sembra recuperarne le antiche origini etrusche. Rimangono i manichini martoriati, affascinante invenzione visiva che contribuisce a creare un climax torbido e minaccioso.

Rimangono le forbici da giardiniere inquadrate in primi piani che fanno presagire selvagge esplosioni di incontrollata violenza. Rimangono i gufi impagliati e gli altri mille dettagli carichi di mistero che partecipano al forte senso di vertigine, che ancora oggi questo capolavoro riesce a evocare nello spettatore.

 

Macchie solari – Armando Crispino, 1975

Un inizio tra i più disturbanti della storia del cinema che accumula in un apparentemente interminabile gioco al massacro una serie di macabri suicidi in una Roma assolata e rovente a causa dell’influsso delle macchie solari.

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Segue una sequenza allucinata e allucinante girata in un servizio di anatomo-patologia tra cadaveri martoriati, pezzi di fegato, interiora varie e contenitori di vetro con reperti anatomici. Il grande caldo e la stanchezza provocano nella protagonista visioni mostruose di cadaveri che si rianimano e si abbandonano a una sarabanda di frenesie sessuali a sfondo necrofilo.

Dopo questa introduzione per stomaci forti, visionaria e delirante, il film di Armando Crispino si normalizza incanalandosi sui più rassicuranti binari del giallo. Permane comunque l’atmosfera straniante e malata legata a una Roma agostana abbacinata dal biancore di un’estate infuocata, dove le morti che avvengono sempre di giorno non rappresentano altro che un aspetto meno convenzionale ma altrettanto efficace della paura.

 

La casa dalle finestre che ridono – Pupi Avati, 1976

Esempio insuperato di “gotico padano” che con arguta originalità sceglie di mettere in scena l’orrore tra le paludi e i canneti del delta del Po. I titoli di testa scorrono su una livida sequenza di accoltellamento accompagnata da una voce farneticante. Poi ci viene mostrato il passaggio sull’acqua di un traghetto che approda a una terra sordida e corrotta.

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Una terra cosi verde da sembrare un giardino dell’Eden al contrario. Il protagonista viene accolto da un nano e da un ubriacone appoggiati a un’automobile rossa. Da qui in poi il film diventa un tuffo cupo e malsano in una cultura contadina che affonda le radici in un oscuro passato fatto di paganesimo, sacrifici umani e pratiche incestuose.

Le finestre ridono, ma non c’è niente da ridere. Anzi, quelle bocche aperte con i denti in bella mostra diventano un’altra tra le tante immagini disturbanti che popolano il film di Pupi Avati. Assieme al frigorifero pieno di lumache, all’affresco maledetto che raffigura l’agonia di San Sebastiano e soprattutto all’apparizione del seno del diabolico prete-donna che fa saltare il banco nel finale.

 

Sette note in nero – Lucio Fulci, 1977

Pellicola interamente giocata sul concetto di visione, che incarna e definisce tutto il cinema di Lucio Fulci. Visione che può essere diretta al passato, nel ricordo e nella ricostruzione, ma anche spinta nel futuro, nell’intuizione e nella precognizione. La tensione si manifesta fin dalle prime scene e si mantiene costante per tutto il film, per poi esplodere nel finale.

GLI SPAGHETTI THRILLER
Per Fulci qualsiasi situazione, qualsiasi inquadratura, qualsiasi oggetto sono buoni per creare tensione. Basti guardare come riesce a provocare paura nello spettatore soltanto mostrando un’azione banale come l’entrare in una galleria al volante di un’autovettura.

Sono sempre i piccoli particolari a introdurre il terrore nell‘universo fulciano: una lama di luce che filtra dalla porta di una chiesa, il risuonare delle note di una sveglia-carillon nel silenzio della notte, un mozzicone di sigaretta sul bordo di un portacenere. Film senza sbavature fino alla scena conclusiva, capolavoro nel capolavoro che cita Il cuore rivelatore di Edgar Allan Poe.

 

 

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