DYLAN DOG SMASCHERA JACK LO SQUARTATORE

DYLAN DOG SMASCHERA JACK LO SQUARTATORE

Il primo numero di Dylan Dog, uscito nel 1986, mi era sembrato troppo artefatto, troppo costruito. La passione per il personaggio è scattata dal secondo episodio, dove lo stile brillante di Tiziano Sclavi si coniuga perfettamente con i suoi incubi. Purtroppo i personaggi odierni di Bonelli sono quasi tutti tristi, per niente divertenti. Vogliamo ancora personaggi brillanti, come il primo Dylan Dog!

Il secondo episodio era intitolato semplicemente “Jack lo squartatore”. Una bella ragazza assume Dylan Dog perché la scagioni da un delitto e alla fine scopriamo che la colpevole è proprio lei (per fare il riassunto molto in breve). La ragazza ha ucciso varie persone fingendosi Jack lo squartatore resuscitato per distrarre l’attenzione da un unico omicidio, quello che le avrebbe permesso di ereditare.

DYLAN DOG SMASCHERA JACK LO SQUARTATORE

DYLAN DOG SMASCHERA JACK LO SQUARTATORE

La forza dei primi episodi di Dylan Dog sta nei dialoghi brillanti, in totale contrasto con l’inquietudine che aleggia nelle pagine. Sembra di essere trascinati in una dimensione indefinita e folle. Non mi capitava da quando ero bambino di aspettare davanti all’edicola l’uscita del nuovo numero di un fumetto. Poi è finita abbastanza presto perché Tiziano Sclavi è andato a fare la “bella vita” lasciando il posto ad altri sceneggiatori che hanno scritto storie horror più convenzionali. Qui si avverte anche la debolezza di Sclavi come editor, presente dai tempi di Mister No, personaggio che ha reso convenzionale da anticonvenzionale che era (malgrado le storie scritte da lui fossero bellissime e prefiguratrici di Dylan Dog).

Una volta, Sclavi aveva chiesto ad Alfredo Castelli di terminargli una sceneggiatura di Dylan Dog di 11 pagine che non riusciva a portare avanti. Castelli la girò a me, io la lessi e gliela restituii perché capivo che sarebbe stato impossibile renderla coerente. Allora Castelli la finì lui in qualche modo. Quelle pagine battute da Sclavi con la macchina per scrivere contenevano più errori che altro, si capiva che erano state scritte in uno stato di semiallucinazione. Con questo non voglio dire che l’alterazione mentale porta alla genialità (Sclavi stesso ha parlato dei suoi vecchi problemi con l’alcol).
Però ci stiamo allontanando da Jack lo squartatore. Per ricollegarci a Dylan Dog, e capire perché questo punto è così importante, dobbiamo fare un viaggio nel tempo.

Nella storia che stiamo per raccontare quello che fa più orrore è forse la città di Londra, che nel 1888 è una tetra metropoli perennemente avvolta dallo smog, formato dal carbone bruciato dalle stufe delle case e dalle fabbriche. Milioni di famiglie operaie denutrite, devastate dall’alcolismo e da ogni genere di malattie, vivono ammassate nelle stanzette dei quartieri formicaio. Anche se l’epoca vittoriana, chiamata così dal nome della regina Vittoria, è famosa per la sua morale rigorosa, le vie brulicano di prostitute che si vendono per pochi penny. I mezzi di locomozione sono ancora i carri trainati dai cavalli che con i loro escrementi riducono le strade in letamai. Un accenno di modernità la portano i quotidiani che, sempre più diffusi, rappresentano la finestra sul mondo dei londinesi. In questo quadro fosco inizia la vicenda, sarebbe meglio dire la leggenda, di Jack lo squartatore. Chiamiamolo così, anche se il suo soprannome inglese, “the Ripper”, andrebbe tradotto più precisamente con “lo sventratore”.

Mary Ann Nichols, 43 anni, fa la prostituta nei sobborghi della città, a Whitechapel, il quartiere dove si svolge tutta la vicenda. Ha capelli castani tendenti al grigio, grigi sono anche gli occhi e il colorito. Sembra quasi che sia stata l’aria plumbea di Londra a colorarla così. Ha un viso delicato e un portamento elegante, anche se è un’alcolizzata. Ha abbandonato il marito dopo 24 anni di vita coniugale e, non riuscendo a trovare un lavoro fisso, è finita sul marciapiede. Questo 30 agosto del 1888 è una giornata fredda e piovosa: l’estate del nord è già terminata. All’una di notte la donna cerca riparo nella cucina di una pensione, ma viene scacciata perché non ha gli spiccioli per pagare un angolo dove sdraiarsi. Lei assicura che tornerà in breve tempo con i soldi. Trova tre clienti uno dopo l’altro, ma va a bersi tutto quello che ha guadagnato. Poco male, pensa, ne abborderà un quarto. Barcolla, è completamente ubriaca. Alle 3.45 di notte due passanti trovano, disteso sulla strada che porta a un mattatoio, il cadavere della prostituta ancora tiepido. Ha la gonna sollevata e presenta profondi tagli di coltello alla gola e sul ventre. Arrivano un poliziotto e un medico che, dopo un rapido esame, radunano tutte le proprietà che la donna portava con sé: un pettine, un fazzoletto e un pezzo di specchio. I giornali parlano diffusamente di questo delitto, compreso l’autorevole “The Times”, ma la faccenda sembra chiudersi lì. L’omicidio di una prostituta non ha mai interessato nessuno.

Annie Chapman ha 48 anni, anche lei fa la prostituta ed è alcolizzata. Ha cominciato a bere quando sua figlia è morta di meningite a 12 anni e il suo ultimogenito è nato disabile. Dopo aver mandato il bambino in un istituto, Annie si è separata dal marito e ha iniziato a vendere centrini, fiori e il proprio corpo, a seconda dell’occasione. Non si sente bene, perché malata di tubercolosi e per uno scontro fisico appena avuto con un’altra donna, entrambe innamorate dello stesso uomo. Ma dovendo pagare l’affitto settimanale, dopo la mezzanotte dell’8 settembre percorre i vicoli di Whitechapel alla ricerca di clienti. Secondo una testimone che la scorge da lontano, ne aggancia uno alle 5.30 del mattino. Venti minuti dopo viene ritrovata distesa davanti a un cortile. Ha la gola tagliata e il corpo terribilmente mutilato, alcuni organi interni le sono stati asportati. La testimone deve essersi sbagliata sull’ora, perché un “lavoro” del genere richiederebbe almeno due ore di tempo anche a una mano esperta.

“Mi sono fissato con le prostitute e non smetterò di sventrarle finché non mi cattureranno”. Questo brano, stralciato da una lettera scritta con inchiostro rosso, arriva il 25 settembre a un’agenzia di stampa londinese. “La prossima volta strapperò le orecchie della signora e le manderò per scherzo alla polizia” continua la missiva, “il mio coltello è così bello e affilato che mi viene voglia di rimettermi subito al lavoro. Sinceramente vostro, Jack lo squartatore”. La lettera viene considerata il falso di un mitomane. Almeno all’inizio.

Elisabeth Stride è una svedese di 43 anni (il suo nome da nubile era Gustafsdotter), che si prostituisce da quando era ragazzina per sfuggire al duro lavoro nei campi. A 23 anni arriva a Londra con l’intenzione di cambiare vita, dato che il vecchio mestiere le ha regalato una grave malattia venerea. Lavora come domestica e sposa un carpentiere, poi si separa, inizia a bere e torna a prostituirsi. Viene vista per l’ultima volta verso la mezzanotte e mezza del 30 settembre, davanti alla sede di una organizzazione ebraica. Gli ebrei dell’Europa orientale sono numerosi in quella via e lei stessa, che abita lì vicino, oltre allo svedese e all’inglese, ha imparato la loro lingua di origine tedesca, l’yiddish. Sempre in quel punto, la donna verrà trovata cadavere da un cocchiere poco dopo. Le è stata tagliata solo la gola, l’assassino non ha avuto il tempo di sventrarla come le altre due, perché la zona è molto frequentata. Deluso, Jack tornerà a colpire quella stessa notte.

La quarta vittima si chiama Catherine Eddowes, una prostituta di 46 anni. Intelligente e dotata di una certa cultura, la donna si vende per poter pagare l’affitto dopo essersi separata dal marito: sempre la stessa storia. Il giorno prima era stata arrestata per ubriachezza molesta. Lasciando la stazione di polizia, Catherine si dirige verso casa fermandosi davanti a una chiesa verso l’una e mezza di notte. Sarà ritrovata sgozzata e sventrata. Oltre ad alcuni organi interni, l’assassino le ha tranciato un orecchio.

Il primo ottobre arriva una seconda missiva di Jack all’agenzia di stampa, nella quale si rivendicano entrambi i delitti. Siccome è stata imbucata prima dell’uscita dei giornali che riportano la notizia, la polizia comincia a prendere sul serio questa lettera e la precedente. I quotidiani le pubblicano, rendendo nota l’esistenza di Jack lo squartatore. L’ultima lettera arriva il 15 ottobre, ed è la più famosa delle tre, anche perché reca l’intestazione “from Hell”: dall’inferno (sarà il titolo di un coinvolgente fumetto di Alan Moore che nel 2001 diverrà un film, con Johnny Deep). Stavolta è accompagnata dalla prova che l’estensore è veramente l’assassino: una scatoletta con una porzione di rene umano. “L’altro pezzo l’ho fritto per mangiarlo” spiega Jack, “era molto buono”.

Mary Kelly ha il discutibile onore di essere la quinta e ultima vittima dello squartatore. Si tratta di una donna più giovane delle altre quattro, avendo 25 anni. Molto attraente, ha capelli rossi e occhi azzurri. Nata in Irlanda, arrivò in Inghilterra da bambina con i genitori. Si prostituisce da quando il marito è morto nell’esplosione di una miniera. A mezzanotte e mezza del 9 novembre, una vicina di casa la sente cantare a squarciagola: è sempre così, pensa, quando la giovane alza il gomito. La stessa vicina, dopo essere uscita e rientrata a tarda notte, sente qualcuno andarsene dall’appartamento della Kelly alle 5.45 del mattino. Il giorno dopo, il padrone di casa manda un assistente a riscuotere l’affitto settimanale e quelli precedenti, dato che la donna non paga da diverso tempo. Visto che non risponde nessuno, entra sfondando la finestra. Il cadavere di Mary Kelly è irriconoscibile a causa dei numerosi sventramenti.

Con tutti gli elementi a disposizione, il dottor Thomas Bond, su incarico dalla polizia, delinea un profilo della personalità di Jack lo squartatore. La motivazione delle uccisioni è probabilmente sessuale, anche se le vittime non sono state violentate. L’assassino agisce sotto l’impulso di una profonda rabbia e di risentimento nei confronti delle donne. Non è un chirurgo o un macellaio, perché i suoi tagli imprecisi rivelano che non ha alcuna conoscenza anatomica. Il capo della polizia, Melville MacNaghten, sospetta cinque uomini, come scriverà in un memorandum del 1894 (reso pubblico nel 1959).

Il primo è Montague John Druitt, che si è suicidato il primo dicembre 1888 buttandosi nel Tamigi. Figlio di un noto medico, Druitt era un giovane avvocato che aveva preferito fare l’insegnante. Contro di lui, in sostanza, c’è solo il fatto che si sia ucciso alla fine della catena dei delitti di Jack.

Un altro è Jacob Levy, macellaio ebreo che odia le prostitute in quanto a causa loro ha contratto la sifilide.

Poi c’è Aaron Kosminski, parrucchiere polacco di religione ebraica. Possiede due case vicino alle quali sono avvenuti i delitti. L’uomo ha turbe mentali che gli provocano odio nei confronti delle donne e tendenze omicide, tanto che negli anni successivi finirà in manicomio, dove morirà nel 1919.

George Chapman, apprendista chirurgo polacco che in realtà si chiama Severin Klosowski. Le sue tendenze assassine verranno effettivamente accertate nel 1902, quindi alcuni anni dopo la redazione del memorandum. Viene impiccato l’anno successivo con l’accusa di avere avvelenato tre donne.

Francis Tumblety, un falso medico che ha fatto fortuna vendendo erbe medicinali, ex marito di una prostituta, odia le donne e colleziona uteri sotto spirito. In America era stato accusato della morte di una donna e di complicità nell’omicidio del presidente Lincoln in quanto amico dell’assassino, John Wilkes Booth. Entrambe le volte, però, era stato scagionato.

William Bury è l’ultimo della lista dei sospetti. Nel 1889, un anno dopo i delitti, Bury strangola la moglie, una ex prostituta. Quindi la sventra e la nasconde in un baule. Scoperto, viene impiccato.

In epoca molto più recente, nel 2006, un’equipe di medici coordinata dal dottor Ian Findlay, dell’università australiana di Brisbane, riesce a estrarre il Dna dalla saliva essiccata dietro il francobollo di una lettera firmata da Jack lo squartatore. Si è potuto ricostruire solo parzialmente il Dna, che risulterebbe essere con buona probabilità quello di una donna.

Un libro uscito in Inghilterra nel 2012, “Jack the Ripper: The hand of a woman” (“Jack lo squartatore: la mano di una donna”), riprende questa ipotesi. L’autore, John Morris, un ex avvocato di 62 anni, sostiene che il serial killer era in realtà Lizzie Williams, moglie del medico reale sir John Williams, il quale era finito pure lui tra i sospettati per essere poi rapidamente scagionato. Lizzie, all’epoca 38enne, avrebbe ucciso e sventrato le cinque prostitute perché non poteva avere figli e ne soffriva. Il fatto che nessuna vittima fu violentata potrebbe indicare che in effetti l’assassina fosse una donna; inoltre, nella scena di un delitto furono trovati i bottoni di uno stivaletto femminile e in un’altra un pezzo di indumento femminile che non apparteneva alla prostituta. Il movente, però, non mi sembra del tutto convincente.

Nel 2013, Antonia Alexander, discendente dell’ultima prostituta uccisa, ha identificato la foto posta in un medaglione che Mary Kelly aveva ricevuto in regalo: è quella dell’amante sir John Williams, il medico reale sposato con Lizzie. Che i due fossero amanti era già stato ipotizzato dagli investigatori dell’epoca, quando lo sospettarono. Secondo la Alexander, non Lizzie, ma John Williams era Jack lo squartatore.

L’omicidio di Mary Kelly, l’ultimo della serie, fu di gran lunga il più efferato, date le misere condizioni in cui si ritrovò il corpo. Io, oggi, posso brillantemente chiudere il caso una volta per tutte rivelando per la prima volta, al mondo che mi sta leggendo attonito, il vero movente di queste uccisioni. In realtà, Lizzie Williams avrebbe voluto eliminare per gelosia la sola Kelly ma, per non fare cadere i sospetti su di lei (e anche per “sfogarsi” della rabbia che la divorava), ha prima ucciso le altre prostitute e scritto lettere ai giornali, in modo da creare nella mente degli investigatori un immaginario serial killer maschio. Dopo avere torturato a morte la sua rivale in amore, non ha avuto altri motivi per continuare a uccidere. Indicativo il fatto che solo l’ultima vittima sia stata uccisa in casa, dove poteva esserci solo lei; e non, come tutte le altre, in strada dove non si sa mai quale prostituta si possa incontrare.

Prima di conoscere le scoperte degli ultimi anni sul caso di “Jack”, avevo intuito il movente grazie a un romanzo di Agatha Christie (“La serie infernale” del 1936) dove, appunto, un assassino uccide varie persone per coprire il vero obiettivo. Ora, rileggendo il secondo episodio di Dylan Dog del 1986, scopro che Tiziano Sclavi era già arrivato alla verità con i suoi poteri medianici; anche se la storia di Dylan Dog è ambientata ai giorni nostri, con altri personaggi e moventi.

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6 commenti

  1. Gran bell’articolo, come sempre quando li scrivi tu!

    • Scusa ma sei il Sauro Penacchioli che scriveva he man, capitan power e video boy per il mensile magic boy? Quella rivista vale 50 euro a numero su ebay, non si possono ristampare quelle storie su qualche volume?

  2. […] altri. Ne ha parlato lui stesso in un libro autobiografico e ne parlo io nell’articolo su Dylan Dog e Jack lo Squartatore. Con questo non voglio dire che l’alterazione mentale porta alla genialità: anzi, quasi sempre […]

  3. […] nei fumetti delle allucinazioni artificiali abbiamo parlato a proposito del primo Dylan Dog di Tiziano Sclavi e dello Zanardi di Andrea […]

  4. […] e per Zagor è proprio la fine. Per fortuna, ad alternarsi tra gli sceneggiatori c’è Tiziano Sclavi, futuro creatore di Dylan Dog, che coglie perfettamente lo spirito del personaggio: dal ruolo […]

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