CAPIRE IMPROVVISAMENTE LA MUSICA

CAPIRE IMPROVVISAMENTE LA MUSICA

Nel corso di un secolo, la psicologia dell’arte non ha ottenuto risultati particolarmente apprezzabili. In particolare la musica resta un fenomeno tutto sommato inspiegabile, sia dal punto di vista psicoanalitico sia di quello delle scienze cognitive e neurologiche. Non mancano libri su libri e sperimentazioni sull’argomento, ma alla fin fine manca sempre la comprensione di quelli che sono la percezione e il godimento musicali, siamo più o meno fermi alla ghiandola pineale cartesiana.

Tra i misteri della musica ce n’è uno che può forse abbracciare altri ambiti artistici e più genericamente intellettuali, ed è il momento di improvvisa congiunzione di intelletto – di comprensione – ed emozione, o risposta emotiva se volete. Un momento che mi piace immaginare come la caduta del diaframma che separa gli scavi da direzioni opposte di una lunga galleria e che ricorda forse l’improvvisa consapevolezza della bellezza dell’architettura romana alla fine del Trecento. Spero che leggendo questa piccola vicenda ritroverete qualche vostra esperienza.

Sono cresciuto in una casa inondata di musica. Mio padre suonava (e suona) dischi di classica in ogni momento. A sei anni potevo canticchiare da cima a fondo una sinfonia di Brahms, a sette non dormivo la notte domandandomi perché Don Giovanni non avesse convenientemente scelto di pentirsi come voleva quel rompipalle di commendatore, a dieci avevo già deciso che Stockhausen non faceva per me. Tuttavia della musica non mi importava granché, era parte dell’arredo come il quadro in fondo al corridoio che mi terrorizzava con il ritratto nero dagli occhi malvagi.

Le cose cambiarono quando arrivai ai dodici anni. Come qualsiasi ragazzino di quei tempi, verso le nove e mezzo di sera mi ficcavo a letto. Per una mezz’ora leggevo fumetti o qualcosa di Jerome, dopo di che spegnevo la luce, accendevo la radio e ascoltavo Supersonic, programma di musica. Mi faceva compagnia mentre prendevo sonno, però la musica che proponeva per lo più mi annoiava, il rock mi sembrava senza capo né coda, i cantanti italiani avevano arrangiamenti tristemente banali.

Ma una sera trasmisero Popcorn, un motivetto strumentale che aveva avuto qualche successo nel 1969, suonato al moog con accompagnamento di chitarra e batteria. Nel 1972 era tornato in auge in Italia nella versione della band La Strana Società. Era semplice ma non canticchiabile, banale ma interessante, aveva qualcosa. La prima volta che lo sentii mi accorsi in modo quasi ipnotico della linea del basso, non riuscivo a distoglierne l’attenzione. Dopo tre o quattro ascolti, partendo dal basso il mio interesse fiorì all’interezza del brano rivelandomi un piccolo universo. Alla Rai (non c’erano ancora le radio private) una stessa traccia poteva passare solo una o due volte al giorno, e per approfondire la mia esplorazione della canzone cominciai ad ascoltare Supersonic sin dall’inizio in attesa di Popcorn, che era un pezzo forte del programma, come anche si legge sulla copertina del 45 giri.

La Strana Società - Popcorn

Sette, otto, dieci volte, quel pezzo mi intrigava ben più di qualsiasi sinfonia mozartiana che nel frattempo rimbombava dalla sala degli adulti svegli fino a tardi. Era una musica che avrei ascoltato in continuazione. Pensai che non potevo più star lì sempre ad aspettare che passasse alla radio e decisi di comprare il disco.

L’acquisto di quel 45 giri fu una tragedia famigliare. I miei genitori furono sconvolti dalla mia volontà di portare a casa quel miserabile pezzo orecchiabile. Alla fine vinsi io, e la tormentata e grottesca storia di quell’acquisto è stata ritenuta degna di essere pubblicata in uno studio accademico britannico sul rapporto tra individuo e musica riprodotta. La mia copia del disco è diventata così importante da finire esposta in una mostra nel Regno Unito. Ma questa storia la racconterò un’altra volta.

Svanito pian piano l’interesse per Popcorn cercai altre canzoni che potessero entusiasmarmi allo stesso modo. Ci riuscì Masterpiece dei Temptations, ma solo in parte. Comprai qualche altro 45 giri e poi lasciai perdere tornando all’ascolto distratto di Beethoven in salotto e dei Dik Dik sotto le coperte. Però non mi lasciai sfuggire un disco che in copertina aveva una ragazzona con la maglietta bagnata, chissà che canzone era.

Un anno più tardi, il miracolo della scoperta si ripeté. Avevo ereditato delle grosse casse acustiche da mio padre che le aveva sostituite e le avevo collegate a un registratorino a cassette. Sul nastro era incisa la Toccata Dorica per organo di Bach. Per gustarmi i bassi che finalmente potevo ascoltare limpidamente grazie ai nuovi altoparlanti, rivolsi l’attenzione per l’appunto alla linea del pedale, del basso della toccata. E ancora mi accorsi improvvisamente di una figura che per qualche motivo mi faceva impazzire, mi provocava brividi lungo la schiena, una progressione discendente: era geniale anche se non capivo perché lo fosse. Improvvisamente tutta la musica classica che avevo sentito sino a quel giorno assunse un nuovo significato, anzi, assunse un significato. Nei mesi successivi mi misi a rincorrere qualsiasi linea di basso soprattutto bachiano e quasi ogni volta l’entusiasmo si ripeteva, il pezzo musicale acquisiva una struttura, non era più suono ben combinato, ogni brano si rivelava come un variegato e complesso mondo con regole che quanto più erano precise e riconoscibili quanto più erano gratificanti sia per la mente sia per lo spirito.

Qui potete ascoltare la Toccata Dorica di Bach. Le linee discendenti per me illuminanti sono al minuto 2.20 e 3.48, anche senza conoscere la musica si possono riconoscere facilmente nel pentagramma inferiore. Come segno di gratitudine per questo brano, lo suonai col cuore in gola nel 1983 a un saggio nella cattedrale di Ginevra.

Vi racconto questa storia perché lungo i decenni mi è capitato di parlarne a diverse persone senza mai riscontrare una esperienza analoga. Però un paio di anni fa mi sono ritrovato a sfogliare un vecchio numero di “Max Planck Research”, la rivista scientifica della tedesca Max Planck Society. A dire il vero la stavo sfogliando nella speranza che si rivelasse così poco interessante da poterla buttar via e fare spazio sul tavolo.

Max Planck Research

E invece a pagina 24, la parte finale di un articolo di Mechthild Zimmermann intitolato Changing Tastes in Music Styles mi ha improvvisamente rivelato che non sono solo al mondo. Dopo considerazioni non particolarmente brillanti come “è possibile che la specifica personalità di un individuo rivesta un ruolo nei suoi gusti musicali”, seguiva una breve intervista al musicologo Paul Elvers.

“I miei genitori non appartengono all’élite accademica e non è che ogni mattina mettessero sul giradischi musica classica per me. Mio padre, per dire, era un grande appassionato dei Pink Floyd e suonava lui stesso quel genere di musica. È stata questa la mia prima esperienza musicale. Ho scoperto il mio amore per la musica classica da adolescente, ricordo un’esperienza particolare che ha avuto una particolare influenza sulla mia formazione. Quando ho cominciato a studiare pianoforte, a un certo punto sono diventato abbastanza bravo da suonare le ‘Invenzioni a due voci‘ di Bach [brani strutturalmente relativamente semplici costituiti da due sole voci, senza ulteriore armonia]. E improvvisamente ho capito quella musica. Ho capito le parti e tutto ha assunto un senso, una forma. È stato un momento meraviglioso. Mi sono ritrovato a suonare la stessa Invenzione in continuazione per due o tre ore rimanendone completamente affascinato. La musica di Bach mi ha permesso di accedere al mondo della musica, e da allora fa stabilmente parte del mio repertorio”.

L’autrice dell’articolo conclude dicendo che “suonare, spesso attiva esperienze chiave, così come possono attivarle l’ascoltare musica dal vivo. Un ruolo importante è giocato dalle persone vicine – amici, insegnanti, parenti eccetera – che introducono i giovani a stili musicali a loro sconosciuti fino a quel momento”. In altre parole, l’esposizione costante in giovane età a un genere musicale qualsiasi, nel momento dell’incontro improvviso con altri generi permetterà l’attivarsi (trigger) di una improvvisa comprensione relativa ad altre musiche. La qual cosa permetterà all’individuo di non doversi contentare del gusto musicale dominante.

Penso che il passaggio verso la piena comprensione di Bach e della musica in generale sia stato possibile grazie alla precedente passione per Popcorn, vero attivatore (trigger, appunto) della mia consapevolezza musicale nel suo insieme. Fatto interessante, pur avendo poi studiato al Conservatorio e avere acquisito una competenza musicale formale complessa, mi è rimasta la possibilità di godere di quasi qualsiasi altra musica, dal jazz al funky al country a Popcorn, credo ancora per merito del rimbalzo del 1972.

L’autrice è figlia del tempo attuale di socializzazione quasi forzata e riconduce qualsiasi possibile esperienza-chiave al contatto diretto con altri individui, non sembra contemplare la possibilità di uno sviluppo individuale attraverso la radio o i dischi, così come in altri ambiti i libri o le mostre. Ignora anche gli elementi extramusicali della musica, come nel caso delle canzoni d’amore o di protesta. In ogni caso individua con precisione un fenomeno che posso confermare con la mia esperienza, pur (ancora una volta nell’ambito della psicologia dell’arte) senza fornirne una qualche spiegazione anche teorica. D’altra parte la stessa autrice sottolinea che si è sempre alla ricerca di nuove risposte “a un antico problema che assorbe l’attenzione dell’umanità dai tempi di Platone e Aristotele, che cosa è considerato bello dalle persone e perché?”.


(Copyright © 2020 Andrea Antonini, Berlino. Immagine di apertura, la rotonda sul mare cantata da Fred Bongusto, foto dell’autore).

 

 

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