TODDI, COME SI REALIZZA UN GIORNALE GIAPPONESE

TODDI, COME SI REALIZZA UN GIORNALE GIAPPONESE

Riporto alla luce un articolo del 1925 scritto dal grande intellettuale Toddi, nel quale si spiega come veniva pubblicato un quotidiano giapponese. Si tratta di un piccolo frammento di storia asiatica, visto con gli occhi di chi in Giappone ci ha abitato imparandone a conoscere gli usi e i costumi e, non ultimo, la lingua stessa. Ed è anche l’occasione per ricordare una personalità ingiustamente cancellata dalla memoria degli italiani.

Toddi (pseudonimo del conte Pietro Silvio Rivetta di Solonghello), fu un giornalista; fu anche scrittore poliedrico e stravagante, oltre che regista cinematografico e illustratore.

Dimenticatissimo dal grande pubblico – ed è un peccato perché fu una personalità di estremo interesse – parlava ben quattordici lingue ed ebbe incarico di cinese e giapponese all’Istituto Orientale di Napoli. Infine fu corrispondente a Pechino e Osaka.

Ha scritto testi che spaziano dalla linguistica all’esoterismo, dalla storia e cultura orientale alla letteratura, e perfino la matematica va annoverata nella sua produzione.

Nel dopoguerra organizzò una “Scuola del benessere integrale” alla quale prese parte Placido Procesi, a cui oggi è intitolata l’Accademia Romana Placido Procesi Per il Kyudo (La Via dell’Arco) e lo Iaido (La Via dell’Estrazione della Spada).

TODDI, COME SI REALIZZA UN GIORNALE GIAPPONESE

Toddi

Elenco qualche titolo – pubblicato tra gli anni Trenta e Quaranta – fra quelli più strani e che, in qualche modo, sono attinenti all’argomento di cui vorrei parlare, oppure indicativi dell’estrosità di cui accennavo prima: “Nihongo No Tebiki, avviamento facile alla difficile lingua nipponica”; “La guerra europea e il Giappone”; “Il paese dell’eroica felicità, usi e costumi giapponesi”; “Il benessere integrale (alimentazione economica e redditizia, l’arte di respirare, grafoterapia, tecnica della felicità)”; “Syntetikon, marca Toddi, mastice per il buonumore familiare”; “Vivere al 100%, teoria e tecnica per il massimo rendimento in questo mondo e nell’altro”; “Geometria della realtà e inesistenza della morte, manuale teorico-pratico per la serenità in questa vita e nell’altra”; “Avventure e disavventure delle parole, bizzarrie e curiosità linguistiche”; “I numeri, questi simpaticoni”; “Preferite i prodotti nazionali, curiosità linguistiche stravaganti e sagge”; “Itinerari bizzarri, curiosità italiche”; e via di seguito. La produzione fu feconda e molto più varia di quanto io non abbia esposto.

Del suo contributo si è avvalsa la moderna disciplina denominata demodoxalogia, per rendere comprensibile l’unitarietà della scienza. Sul significato di demodoxalogia, l’enciclopedia virtuale Wikipedia così si esprime: “demodoxalogia (demo=popolo, doxa=opinione, logos=discorso) è lo studio dell’opinione pubblica; disciplina che si propone di approfondire i presupposti psicologici e sociali che informano e formano l’opinione pubblica e tende a ottenere una migliore combinazione fra la notizia, il pubblico e il mezzo impiegato”.

TODDI, COME SI REALIZZA UN GIORNALE GIAPPONESE

Novella, Anno VII, N. 6, Giugno 1925; la rivista da cui è stato tratto l’articolo di Toddi

Nella rivista mensile Novella, una pubblicazione milanese di racconti italiani e stranieri e di varietà (N. 6, giugno 1925), tempo fa trovai un articolo di Toddi in cui il giornalista parla del giornale quotidiano giapponese. E, considerate le premesse, con cognizione di causa.
Ho riportato il testo integrale e tutte le fotografie all’interno del servizio.

Lo stile è fresco e competente, e le informazioni contenute sono ancora attuali; se non ci fosse Internet di mezzo potrebbe essere stato scritto l’altro ieri. Giustamente, dice Toddi: “i Giapponesi ci conoscono meglio di quello che noi conosciamo il Giappone”.

Buona lettura!


SHIMBUN, di Toddi

il giornale più complicato del mondo

 

TODDI, COME SI REALIZZA UN GIORNALE GIAPPONESE

Un quotidiano giapponese è un miracolo quotidiano. Si direbbe che, nella notte, non gli operai di una tipografia di questo mondo l’abbian composto, ma che per incantesimo esso si sia formato, al tocco magico del martello fatato del kami Daikoku, il più bonario e generoso dei “Sette dei della felicità”.
Quasi tutti i quotidiani giapponesi si compongono di notte, nelle vaste insatsu-sho (1) e, in una sola nottata, dai centocinquantamila ai duecentocinquantamila tipi mobili debbono trovare il loro posto in quel panorama di formiche che è un foglio quotidiano giapponese.
Le sale della stereotipia e delle macchine hanno le presse, le calandre, i fornelli, le fresatrici ultimo modello, hanno le rotative modernissime; la “kenskû-kyoku” ha servizi identici a quelli delle nostre più perfette redazioni: ma le tipografie giapponesi mancano di quel preziosissimo geniale congegno che è coefficiente importantissimo di velocità: la linotype.
Tutt’intero un quotidiano giapponese nelle sue otto, dieci, sedici pagine, è composto a mano.

Coloro che abbiano anche una superficiale competenza in materia tipografica comprendono facilmente la differenza enorme di velocità e di semplicità che passa tra l’agile composizione meccanica – in cui il linotipista, con l’agilità di una dattilografa, determina con semplici lievi rapidi tocchi su la tastiera la caduta successiva delle matrici, lasciando al mirabile meccanismo il compito dell’allineamento, della spaziatura e della fusione della riga intera, e del ritorno di ogni matrice al proprio posto, a operazione compiuta – e la composizione a mano, in cui ogni singola lettera deve essere cercata nella cassetta e allineata con cura, rischiando l’intera riga o l’intero pacco di “andare in baracca” al minimo urto imprudente, il quale trasforma la più accurata composizione in un caos di pezzettini di piombo.
Ma l’operaio compositore dell’estremo Est insulare non ha dinanzi a sé, come il nostro, una semplice “cassa” di assai men che un metro quadrato la quale contiene, in poco più che novanta caselle, tutte le lettere, maiuscole minuscole, e tutti i segni e spazii che gli possan servire per la composizione in un determinato “corpo”: lo “shokuji-kata” ossia “colui che semina caratteri” – come i Giapponesi chiamano poeticamente l’operaio compositore – deve, prima di… seminarli, andare a cercare ogni singolo carattere in un immenso casellario il quale occupa uno stanzone non meno grande di un’intera nostra tipografia.
Almeno tremila caratteri sono di uso frequentissimo: tremila caratteri tutti diversi, ciascuno dei quali rappresenta un’idea.

La scrittura fondamentale giapponese è ideografica, come quella con cui noi esprimiamo le nostre cifre, come i nostri segni di operazioni aritmetiche, i simboli astronomici, come la nomenclatura chimica. E’ la scrittura cinese, trapiantata nel Giappone che non aveva ancora scrittura propria, e trapiantabile – teoricamente – in qualsiasi paese di questo mondo, poiché astrae dal suono: anche noi, volendo, potremmo scrivere con caratteri cinesi la lingua italiana, leggendoli poi nella lingua che vogliamo: appunto come un numero, scritto in cifre, può esser letto indifferentemente in qualsiasi lingua di questo mondo.
Ma le nostre cifre non son che dieci, mentre le idee – in qualsiasi parte del mondo – sono assai di più e a noi basta – senz’addentrarci in più complicata analisi della scrittura estremo-orientale – limitarci alla contemplazione statistica di questa scrittura che per ogni idea ha un segno.

Quando, nel 1891, il quotidiano giapponese Hôchi-Shimbun (“L’informatore”) annunziò che avrebbe, d’allora in poi, limitato a soli tremila caratteri il proprio repertorio, si ebbe l’impressione di un grande progresso di semplificazione.
Ma al… bel gesto generoso verso i lettori non poteva corrispondere l’applicazione pratica: giacchè lo Hôchi-Shimbun, non ostante le sue migliori intenzioni, non poteva certo vincolarsi a ridurre a un repertorio di tremila idee fondamentali il proprio testo, trattandosi specialmente di un quotidiano il quale dipende dagli avvenimenti. E gli avvenimenti, di cronaca e di politica, non tollerano certamente limitazioni lessicali.
E accadde… per forza maggiore che, già l’indomani della promessa, lo Hôchi-Shimbun fu costretto a violarla…
E, affianco ai tremila segni, si dovettero tenere, almeno come riserva, numerosi altri.

In media, un giapponese di buona cultura non conosce più di quattro o cinquemila ideogrammi: chi giunga a conoscerne sette od ottomila è già reputato un grande bungakusha, “sapiente di lettere”, sebbene questo numero non rappresenti che una piccola frazione del tesoro di segni che la lingua giapponese possiede potenzialmente: Ishikawa Ei, nel suo dizionario “Gran tesoro del Giappone” (Nihon-dai-gyokuhen) ci ha lasciato una raccolta… quasi completa: settantamila segni differenti!
Nessuna delle moderne tipografie giapponesi aspira a fare una ristampa del “Gran tesoro del Giappone”, e quindi può accontentarsi di possedere dai cinque ai seimila caratteri cinesi differenti di uso più comune, in ognuno dei “corpi” adoperati nella composizione del giornale.

E’ sempre un numero impressionante: e non è semplice né rapido trovare, fra queste migliaia di caratteri incasellati, quello che serve. Gli operai compositori, “coloro che seminano caratteri”, sono generalmente, anche in Giappone, giovani cinesi, i quali hanno, per… atavismo, familiarità con i complicati ideogrammi. A ciascuno di questi giovani “shokuji-kata” viene consegnato un piccolo brano del testo ed essi si affannano a correre da un punto all’altro, lo canterellano con quell’intonazione ch’è caratteristica della lingua celeste. Lo spettacolo di tutti questi giovani cinesi che corrono a piluccar segni nei punti più lontani della tipografia, che si incrociano canterellando sillabe misteriose è dei più curiosi: sembrano sacerdoti di un rito strano o giocatori di un gioco complicato e bizzarro.
Da questo rito e da questo gioco esce fuori l’ossatura del giornale: l’ossatura soltanto, in un testo che sarebbe indecifrabile a gran parte dei lettori giapponesi.

In alto: I “seminatori di caratteri” in una delle sale corrispondenti alle nostre “casse”. Di fianco: La testata di un quotidiano della capitale. Sotto: La copertina della rivista “Mondo dei ragazzi” (Sho nen se-kai)

Qualche quotidiano ha un nome che, anche tradotto, suona bizzarramente per noi occidentali: tale è ilChû-ô Shimbun “Giornale del Centro”, (senza nessuna allusione a partiti politici), o lo Yomi-uri Shimbunossia “Il Giornale… del giornalaio!”. Due quotidiani hanno un titolo a base aritmetica: lo Yorozu Shimbun“Il giornale Diecimila” ossia che parla di una miriade di cose, e il Ni-roku Shimbun “Il giornale due per sei” ossia delle dodici ore, che secondo l’antico orologio nipponico corrispondevano alle ventiquattro ore nostre e si intitolavano ai dodici rami del ciclo duodecimale. Oggi con l’uso generale della nostra notazione oraria pochi Giapponesi saprebbero dirvi che “l’ora della pecora” (hitsuji no toki) va dall’una di notte alle tre e che, alle nove del mattino, comincia la i no toki ossia “l’ora del porco”.

La parola shimbun (pronuncia scìn-bùn) che ricorre in quasi tutti i titoli, significa giornale, o, propriamente, “notizie”: corrisponde, etimologicamente, all’inglese newspaper ossia a paper of news.
Oltre il titolo, la prima pagina contiene generalmente soltanto la pubblicità, la quale in Giappone ha un grandissimo sviluppo.
Per arrivare al testo, bisogna voltar pagina, e, dopo un primo istante di capogiro, si potrà osservare che non tutti i segni hanno la medesima fisionomia: anche il profano può, a prima vista, distinguere i segni cinesi da quelli giapponesi puri: gl’ideografici, cioè, dai fonetici.

I caratteri cinesi, pur variissimi tra loro, e complicati, sono tutti incorniciabili in un quadrato perfetto e son composti di pennellate a tratto deciso.
Sono le idee.
Ma le idee hanno bisogno di esser legate fra loro con rapporti grammaticali e sintattici, che il cinese non esprime e che il giapponese, invece, – lingua morfologicamente complicatissima – indica con prefissi e terminazioni. E per far ciò adopera segni propri, fonetici, ciascuno dei quali esprime una sillaba e che si riconoscono, graficamente, per l’andatura curvilinea a ghirigoro del pennello: sono i caratteri hiragana, caratteri pieni di grazia e sinuosità che i primi viaggiatori chiamaron “scrittura femminile” perché li credettero riservati alle donne. Si direbbero infatti creati per esser tracciati da gentil mano di donna.
Ma ancor non basta.
Spesso il lettore si troverebbe imbarazzato a decifrare i segni cinesi: il giornale è pubblicazione di gran diffusione e non tutti coloro che lo acquistano hanno il dovere di essere dei letterati versati nella lingua di Confucio e di Mencio. Lo Yomiuri Shimbun fu il primo giornale che, resosi conto di quest’ostacolo, volle, nel 1875, apportare una innovazione che fu utilissima per la diffusione dei quotidiani e, insieme, della cultura: e cominciò a indicare anche a fianco dei segni cinesi la loro pronuncia in giapponese, con caratteri fonetici hiragana, ponendosi così alla portata del popolo meno colto.

Nelle tipografie dei quotidiani questa composizione laterale in minutissimi segni che accompagnano tutto il testo è fatto generalmente dalle donne.
E numerose sono anche le donne yomi-uri ossia le giornalaie: nel vocabolo yomi-uri è sinteticamente compreso lo “strillonaggio” (yomi) e la vendita (uri). Piccole giovani donne trotterellanti sui geta(zoccoletti) di legno, portanti sul dorso, infilati nel kimono, come in un sacco di marsupiale, l’ultimo nato, mentre la grande obi, la cintura fiorita, impedisce al rampollo di cadere e trattiene sul davanti, a guisa di grembiule, il manifesto che riporta i titoli più sensazionali dell’ultima edizione.

A sinistra: Titolo ed inizio di un articolo di un quotidiano giapponese. In alto: Nella sala delle macchine di un grande quotidiano: una rotativa. Di fianco: Illustrazione di un quotidiano. Sotto: Una yomi-uri (giornalaia) nelle vie di Tôkyo.

Talora uno sciame di giovanotti irrompe nelle vie gridando l’uscita di una go-gwai: è una “edizione straordinaria”, la quale differisce dalle nostre perché è semplicemente un fogliettino volante contenente la notizia straordinaria.

Il servizio di informazioni non procede, in Giappone, differentemente che in occidente: i shim-bun-kisha e gli tsûshin-in sono rispettivamente, i nostri redattori e corrispondenti, non invidiabili dai nostri per il trattamento economico. La professione di giornalista, non è troppo remunerativa in Giappone, sebbene sensibilmente migliorata in questi ultimi anni.
E alla grande passione dei giapponesi di conoscere tutto quanto riguarda i paesi d’Europa e di America non corrisponde una adeguata rete di “inviati speciali”.
Eppure i Giapponesi ci conoscono meglio di quello che noi conosciamo il Giappone: gli tsûshin-in e le agenzie – quali la Tôkyô Tsûshin, la Tei-koku Tsûshin, la Jigû Tsûshin, la Meiji Tsûshin, Dempo Tsûshin ed altre – trasmettono notizie controllate: il “canard” è raro nella stampa giapponese.
Sotto molti punti di vista un quotidiano giapponese è un organismo perfetto, il quale può stare alla pari con i migliori confratelli d’occidente.

Eppure son sessant’anni appena da quando John Hess pubblicò a Yokohama il primo giornale.
Non ostante il nome anglosassone, John Hess era un giapponese puro sangue, tal Hiko, il quale americanizzò il suo nome quando, scaraventato da una tempesta sulle coste occidentali degli Stati Uniti, scelse come patria di adozione la terra che l’aveva accolto così inospitabilmente: dimenticò presto la sua professione di semplice marinaio e i rottami della sua giunca sino a quando la nostalgia lo riprese risospingendolo, dopo quattordici anni circa, su un’imbarcazione più consistente, in Giappone.

E a Yokohama, nel 1864, comparve il primo giornale giapponese, del quale John Hess e Ginko Kishida erano editori, proprietari, direttori e redattori: il primo traducendo i giornali che giungevano dall’America e il secondo facendo una selezione delle notizie e dando ad esse una forma di cui l’ex-marinaio Miko non avrebbe certo saputo vestirle.
Dopo pochi numeri però il socio… letterato, Kishida, si avvide che la fatica era troppo improba, abbandonò redazione e patria, veleggiando a sua volta verso il paese dove John Hess aveva trovato un nome e molto danaro americani.

Il primo shimbun-shi si spense, con l’unico merito di aver introdotto in Giappone, più che un vero giornale, il nome e l’idea che Fukuchi Gen-ichi-rô e Sasano Dempei dovevano poco dopo sviluppare nel loro “Giornale del pubblico” (Kôko Shimbun) giornale nel senso più vivo della parola, sorto in un momento febbrile, quando ancora era nell’aria l’eco di quel bombardamento di Shimonoseki che doveva spingere il Giappone verso l’europeizzazione.

Un telegramma storico: il primo inviato da Tokyo all’Osahi-Shimbun, dopo il gran disastro

Così viva fu l’attività del Kôko Shimbun che il giornale… venne soppresso e Fukuchi Gen-ichi-rô fu il primo giapponese imprigionato per reato di stampa periodica.
Ma il Giappone si avviava decisamente verso forme nuove e ben presto l’iniziativa di tre uomini di azione Shimada Saburo, Morikage Numa e Kozuka Ryû fondavano, nel settembre 1870, a Yokohama il primo giornale composto con caratteri mobili – mentre i precedenti erano xilografati – e stampato con macchine importate dall’estero: quel Mainichi Shimbun che, trasferitosi poi a Tôkyô, vi si pubblica tuttora.
L’esempio fu ben presto seguito, con una fioritura di quotidiani ai quali si aggiunse un numero rilevante dizasshi ossia di riviste di cultura generale di attualità, di curiosità o specializzate, o dedicate al mondo femminile, agli adolescenti, ai bambini…

La patria del share-bon (“libri di facezie”) e di tutta la spiritosa se non castigatissima produzione della famigerata casa editrice Hachimonji-ya, aperta all’inizio del secolo scorso in Kyôto da chi scelse uno pseudonimo ch’era un programma: Ji-shô “riso spontaneo”, non poteva mancare ai giornali umoristici.
Più recentemente appassionatosi anch’esso al cinematografo, il Giappone ebbe numerose Kwa-tsudôshashin-zasshi (“riviste della fotografia che vive e si muove”) ad esaltazione delle “stelle” dello schermo, esotiche e giapponesi le quali in lingua giapponese perdono ogni etimologia siderale per divenire, ancor più poeticamente, “immagini di fiori”: hanagata.
Giacchè, pur nelle forme più moderne ed occidentalizzate, traspare od appare sempre almen qualcosa che rivela l’antica grazia e l’innata poesia dello O-Yamato-toyo-Akitsu-shima “il Grande Yamato, feconda Isola della Libellula”.

TODDI

(1)      Nella trascrizione dei nomi giapponesi ho seguito il sistema della Romaji-kwai, ufficialmente adottato dal governo giapponese e dagli yamatologi: le vocali hanno lo stesso suono che in italiano, anche nei dittonghi; le consonanti come in inglese: g è sempre duro: gh; e j è il nostro gi; sh come sci. E il giapponese non ha accento tonico: tutte le sillabe sono egualmente accentate, “martellate”.

 

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4 commenti

  1. Interessante.

  2. […] e della rivista di giochi era Pietro Silvio Rivetta di Solonghello, del quale avevo già parlato qui, e conosciuto dai più come Toddi. Giornalista e intellettuale eclettico e aggiornato, aveva colto […]

  3. Effettivamente prima dell’introduzione anche in Giappone delle moderne tecnologie di fotocomposizione (fine anni ’70 – inizio anni ’80) i quotidiani giapponesi venivano composti interamente a mano. Bisogna anche dire che tutti i maggiori quotidiani nipponici hanno due edizioni giornaliere (mattutina e pomeridiana).
    Un assaggio di come si fosse evoluta la tecnologia di pubblicazione dei quotidiani in Giappone lo si ebbe quando Sandro Pertini visitò ufficialmente il Giappone nel 1981 e si recò in visita alla redazione del quotidiano “Asahi Shimbun”, che allora tirava cinque milioni di copie. Al suo arrivo venne fotografato sull’ingresso dell’edificio, insieme al direttore e all’editore. Terminata la visita alla redazione ed alla tipografia, al Presidente e al suo seguito vennero offerte copie di una edizione straordinaria del giornale, con titoli in italiano e in giapponese, e la foto scattata poco prima sulla prima pagina.

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