IL GIAPPONE NON SI ARRESE ANCHE SE VOLEVA FARLO

IL GIAPPONE NON SI ARRESE ANCHE SE VOLEVA FARLO

Le due guerre mondiali fanno parte di quegli avvenimenti della storia di cui non si smette mai di parlare. Gran parte del mondo in cui viviamo è determinata o influenzata ancora oggi da come quelle guerre si sono svolte e si sono concluse.

Tra gli innumerevoli episodi, aneddoti, accadimenti di ogni genere che si sono verificati in quelle guerre, alcuni sono noti a tutti (come la disfatta italiana a Caporetto o lo sbarco degli alleati in Normandia, l’assedio tedesco di Stalingrado o il lancio delle bombe atomiche sul Giappone), mentre altri, pur altrettanto drammatici e, soprattutto, importantissimi per le loro conseguenze nel tempo, sono molto meno noti, conosciuti solo da studiosi o comunque addetti ai lavori.

I tentativi del Giappone di porre termine alla guerra sono tra questi.

Si dice spesso che i dirigenti giapponesi e la maggioranza della popolazione, dato il particolare concetto dell’onore in cui erano stati allevati (il cosiddetto “codice del samurai”), non avevano intenzione di arrendersi ed erano pronti a combattere fino alla morte incuranti delle sofferenze.

Occorre però ricordare che il Giappone non era guidato dai rappresentanti del popolo e neppure dall’imperatore, ma dai vertici militari che da anni avevano preso il potere, come dimostra l’episodio che stiamo per raccontare.

Già molti mesi prima del lancio delle due bombe atomiche, i capi giapponesi avevano capito di avere perso la guerra.

Nell’aprile 1945 l’ammiraglio Kantaro Suzuki diventò primo ministro: per prima cosa chiese una relazione completa sul potenziale bellico del Giappone e i risultati furono disastrosi.

La produzione d’acciaio era scesa a meno di 100mila tonnellate al mese, si fabbricavano meno di 700 aerei al mese, e dopo settembre non se ne sarebbero fabbricati affatto perché si sarebbero esaurite le scorte di alluminio.

Le rotte marittime erano tagliate e controllate dalla marina americana, il che impediva il rifornimento di viveri. Per effetto dei terribili bombardamenti, entro la fine dell’anno non ci sarebbero più state case nelle città con oltre 250mila abitanti.

Tali informazioni, e altre altrettanto gravi, non erano conosciute neppure dal ministro degli esteri Shigenori Togo, poiché i capi militari gliele nascondevano.

Alla fine di aprile, Suzuki decise che si doveva porre fine alla guerra prima possibile. Convocò il Consiglio Supremo di Guerra, composto da lui stesso, dai ministri degli esteri, marina e guerra e dai capi di stato maggiore della marina e dell’esercito, e affermò tale necessità.

In quegli stessi giorni si stava combattendo la battaglia di Okinawa, e il ministro della guerra Korechika Anami, militare fanatico, insistette per aspettare, poiché certo avrebbero sconfitto gli americani sloggiandoli da Okinawa e così avrebbero potuto trattare per migliori condizioni di pace. I capi militari, in effetti, continuavano a dire che c’era ancora qualche possibilità di vittoria, salvo poi, in privato, confessare che era ormai impossibile continuare quella lotta impari.

Il primo ministro Suzuki, uomo colto, discutendo con loro citò un’antica leggenda cinese: “Voi siete come quel mercante che offriva in vendita uno scudo imperforabile e una lancia che poteva perforare qualsiasi scudo”.

Alcuni diplomatici non avevano intenzione di dare retta ai militari e proposero di ricorrere alla mediazione dell’Unione Sovietica, alleata degli americani contro i tedeschi, ma non in guerra con il Giappone. Fu quindi chiesto all’ex primo ministro Koki Hirota di prendere contatto con l’ambasciatore russo a Tokio, Yacov Malik.

C’era però il problema che il Kempeitai, la polizia militare giapponese, arrestava per tradimento chiunque parlasse di pace. Così Hirota si trasferì nella stazione termale di Hakone, a poca distanza da Tokio, vicino alla casa di Malik e il 3 giugno fece in modo di incontrarsi con lui. Malik fu piuttosto freddo e diffidente, i primi colloqui non portarono a nulla.

Ci fu però una novità: fino a quel momento la stampa russa aveva parlato solo di vittorie americane e sconfitte giapponesi. Ora invece comparvero articoli in cui si diceva che forse gli americani potevano davvero essere scacciati da Okinawa. Era forse un segnale che la Russia stava pensando di fare effettivamente da mediatrice?

Tutto però stava precipitando: il 21 giugno finì la battaglia di Okinawa, l’ultima della seconda guerra mondiale, e le speranze (ammesso che fossero mai realmente esistite) dei militari giapponesi si rivelarono, come tutti avevano capito da un pezzo, illusorie. La sconfitta dei giapponesi era assoluta e senza possibilità d’equivoci.

E questo faceva sì che ora la Russia potesse chiedere un prezzo, non certo piccolo, per la sua mediazione. Tre giorni dopo, l’ambasciatore Malik chiese chiaro e tondo a Hirota: “Se la Russia farà da mediatrice per il Giappone, che cosa il Giappone farà per la Russia?”.

Si deve inoltre tenere presente che l’imperatore Hirohito era fino a quel momento all’oscuro della realtà delle cose. Nominalmente capo supremo delle forze armate e di tutto il Giappone, considerato un vero e proprio dio in terra, era però nella realtà solo un simbolo vivente, una specie di bandiera o di icona sacra da cui nessuno si aspettava che realmente si occupasse di problemi terreni, guerra compresa.

Siccome i militari non lo informavano in maniera corretta, la vera situazione gli era nascosta. Dopo Okinawa però non fu più possibile tacergliela. Allora Hirohito ordinò al Consiglio Supremo di Guerra di riunirsi in sua presenza e fargli il rapporto completo e realistico della situazione.

Tale rapporto fu per forza di cose sincero e al termine l’imperatore disse che era necessario studiare un modo per terminare la guerra prima possibile.

Il primo ministro Suzuki commentò che l’imperatore aveva detto quello che tutti pensavano, ma nessuno aveva il coraggio di esprimere (anche perché, come già osservato, il Kempeitai arrestava chiunque parlasse di pace, anche i detentori di alte cariche).

Il Consiglio fu d’accordo, inevitabilmente, nel cercare un modo per porre fine alla guerra. Furono proposte quattro vie: 1) intraprendere trattative dirette con gli Stati Uniti; 2) chiedere (stavolta ufficialmente, non come iniziativa informale) la mediazione dell’Unione Sovietica; 3) inviare un messaggio dell’imperatore in persona al re d’Inghilterra, usando i vecchi canali della diplomazia di corte; 4) chiedere a Ciang Kai-Scek, premier cinese, di mediare con l’America.

Il ministro degli esteri Togo era favorevole alla prima via, ma gli altri non furono d’accordo perché l’America aveva già presentato la formula, come già per la Germania, di resa incondizionata, e in questo caso si temeva la fine del Giappone come nazione e dell’imperatore.

Alla fine decisero di chiedere la mediazione russa. Probabilmente non si volle, usando altre vie, rischiare di offendere la Russia, che era pur sempre alleata degli americani.

Possiamo ragionevolmente ritenere che non ci si volle rivolgere all’Inghilterra perché era portatrice, insieme all’America, della proposta di resa incondizionata e legata (quindi dipendente) all’America stessa per poter avere una posizione autonoma, anche se il re fosse stato favorevole.

Quanto alla proposta Ciang Kai-Scek, bastava pensare per un attimo a cosa era stata l’occupazione giapponese per i militari e i civili cinesi prigionieri (in alcuni casi erano rimasti inorriditi persino i diplomatici nazisti!), per capire che era del tutto inutile contarci.

Certo possiamo domandarci come mai nessuno pensò di chiedere la mediazione della Croce Rossa, del Vaticano o di una nazione neutrale (come la Svezia, che tanto si era attivata nelle trattative fra gli alleati e i tedeschi). Ma probabilmente si sarebbe trattato di iniziare degli approcci ex novo, mentre il tempo stringeva e quelli con la Russia erano pur sempre già cominciati.

Il 29 giugno, Hirota si recò per la quarta volta da Malik all’ambasciata russa di Tokio. Dovette molto insistere, ma alla fine Malik promise di tramettere il messaggio giapponese a Stalin. Lo inviò però con la ferrovia ordinaria, notoriamente lentissima (dato che le comunicazioni civili, in tutto il territorio sovietico, dovevano dare la precedenza a quelle militari).

Alcuni giorni dopo, Hirota, non avendone più saputo nulla, chiese a Malik un nuovo colloquio, ma lui si negò affermando di stare poco bene.

In quegli stessi giorni, a Mosca, l’ambasciatore giapponese Sato si recò per due volte dal commissario agli esteri Molotov, proprio per chiedergli notizie di quei colloqui fra Hirota e Malik, ma trovò che Molotov appariva completamente indifferente alla cosa.

Il 12 luglio l’imperatore Hirohito mandò a Mosca il principe Fumimaru Konoye con un suo messaggio personale per Stalin, per chiedere ufficialmente la mediazione della Russia presso gli Alleati. A sua volta il ministro degli esteri Togo mandò un telegramma all’ambasciatore Sato ribadendo l’importanza della questione. Sato parlò col vice-commissario agli esteri Rosovsky, il quale gli rispose che Stalin e Molotov erano in quel momento troppo impegnati con i preparativi per la conferenza di Potsdam.

Il 16 luglio Sato tornò da Rosovsky e insisté per avere una risposta prima che Stalin e Molotov partissero per Potsdam. Rosovsky rispose che le proposte giapponesi erano “troppo vaghe e difficili a capirsi”, bisognava aspettare il ritorno di Stalin e Molotov.

Il 17 luglio iniziò la conferenza di Potsdam, nel corso della quale Stalin, in modo casuale, disse al presidente americano Truman che i giapponesi avevano accennato a dei negoziati ma, secondo lui, non erano sinceri.

Il 21 luglio arrivò a Sato un nuovo telegramma, secondo cui l’inviato speciale dell’imperatore era a Mosca per cercare di ottenere condizioni di pace diverse dalla resa incondizionata. Ma arrivò con ritardo e Sato non poté far nulla fino a giorno 25.

Il 26 luglio, infine, fu reso pubblico l’”ultimatum di Potsdam”, firmato da Usa, Regno Unito e Cina, che chiedeva al Giappone di arrendersi se non voleva essere completamente distrutto.

Le condizioni di tale ultimatum, però, sembravano più miti di quanto i giapponesi temessero.
Si chiedeva la resa incondizionata delle forze armate giapponesi, ma il Giappone sarebbe rimasto una nazione. Il popolo avrebbe potuto scegliere un governo democratico dopo la fine della dittatura dei militari.

L’imperatore disse al ministro degli esteri Togo che le condizioni erano accettabili, e fece riunire il Consiglio dei Ministri per discuterle.

Il 27 luglio il Gabinetto si dichiarò favorevole alla pace: solo il ministro della guerra Anami e i capi di stato maggiore protestarono, ma furono messi in minoranza. Togo avrebbe voluto accettare subito, Suzuki invece disse che ora c’era un minimo di spazio per trattare e volle aspettare la risposta russa ai vari messaggi giapponesi. Dopotutto l’ultima proposta giapponese ai russi era di soli due giorni prima.

Vi era poi un’altra complicazione: la dichiarazione di Potsdam non era ancora stata comunicata ufficialmente al Giappone, loro la conoscevano solo per averla sentita alla radio. Potevano, in tale caso, agire prendendo contatto con gli alleati?

Era certo necessario dare una risposta prima possibile, ma intanto il primo ministro Suzuki disse ai giornalisti che il governo ancora non aveva raggiunto una decisione sull’ultimatum: il fatto stesso che non dicesse di volerlo esplicitamente respingere avrebbe indicato ai giornalisti stessi, e a tutti gli interessati, che in pratica era favorevole ad accettarlo.

In questa situazione già così tanto complessa e delicata si inserì allora una complicazione ancora più grave, secondo quanto dichiarato, in interviste degli anni successivi alla guerra, da un testimone molto interessante.

Tale testimone era Kazuo Kawai, allora direttore del quotidiano giapponese in lingua inglese Nippon Times (fino al 1943 Japan Times, nome poi ripreso dopo la guerra), il giornale di Tokio controllato dal ministero degli esteri, e in seguito insegnante di scienze politiche all’Università statale dell’Ohio. Nel luglio e agosto 1945, Kawai fu tutti i giorni, per ore e ore, presente nel ministero degli esteri e quindi disponeva di informazioni di prima mano.

Il 28 luglio, dunque, il primo ministro Suzuki dichiarò ai giornalisti che il governo si atteneva a una politica di mokusatsu. Tale termine non ha una traduzione nelle lingue occidentali ed è ambiguo anche in giapponese: più o meno vuol dire “ignorare” o anche “astenersi dai commenti”. Somiglia, alla lontana, al “no comment” anglosassone.

Purtroppo i traduttori dell’agenzia giornalistica Domei, incaricati della diffusione del messaggio all’estero, non sapendo cosa intendesse dire Suzuki, sbagliarono traduzione e così Radio Tokio annunciò al mondo, e soprattutto agli Alleati, che “il Giappone ‘ignora’ l’ultimatum di Potsdam”!

Ovviamente per i governi alleati, un Giappone che “ignorava” l’ultimatum significava continuare a combattere. Dovevano dimostrargli che la minaccia di distruggerlo non era campata in aria. Avendo già deciso, a causa delle gravi perdite subite proprio a Okinawa malgrado la vittoria, di non tentare uno sbarco di truppe, cui sarebbe seguita una battaglia la cui durata e ferocia erano fin troppo facili da immaginare, la bomba atomica era l’opzione più adatta.

Perché il Giappone non fece correggere alla svelta l’errore? Qui anche lo stesso Kawai poté fare solo congetture: per mettere in minoranza i militaristi e far vincere i pacifisti nella riunione del giorno 27 c’erano voluti mesi di lavoro clandestino. L’equilibrio fra le varie posizioni era precario, i capi militari erano furiosi.

L’errore di traduzione suonò come una sfida agli Alleati, che ruppe l’equilibrio e ridette potere ai militaristi, sicché i pacifisti dovettero tacere per salvarsi la vita, dato che l’esercito arrestava i pacifisti peggio di prima, comprese le alte cariche. Gli stessi membri del governo temevano di venire arrestati e, soprattutto, uccisi senza tanti complimenti. Lo stesso primo ministro Suzuki (che pure era un ammiraglio) subì un attentato, a cui per fortuna scampò.

Intanto, il 30 luglio e poi ancora il 2 agosto l’ambasciatore Sato andò da Rosovsky, dichiarando che era di massima urgenza avere una risposta, ma niente: ci sarebbe stata una risposta, gli disse Rosovsky, solo dopo il ritorno di Stalin e Molotov.

Questi due simpatici e degni compari tornarono a Mosca solo il 5 agosto. Il Giappone aspettò ansiosamente la loro famosa risposta… e il giorno dopo, il 6 agosto 1945, ne ebbe una inequivocabile: la bomba atomica su Hiroshima.

Due giorni dopo, l’8 agosto, Suzuki decise di accettare ufficialmente l’offerta di Potsdam e convocò il governo in riunione. Ma prima che essa cominciasse, a Mosca Molotov convocò il povero ambasciatore Sato, gli disse “ecco la vostra risposta!” … e gli consegnò la dichiarazione di guerra dell’Unione Sovietica al Giappone!

Sempre quello stesso giorno, cadde la bomba anche su Nagasaki.

Il giorno dopo, i soldati russi dilagavano in Manciuria, la regione cinese occupata dai giapponesi.

L’ultimo consiglio di guerra si tenne in un rifugio antiaereo sotto il palazzo imperiale, di nove metri per cinque e mezzo, dove si pigiarono l’imperatore, i ministri e il Consiglio di Guerra.

Il ministro della guerra Anami, tanto per non smentirsi, consigliò di tenere duro, gli americani sarebbero stati certo ricacciati in mare se avessero tentato di invadere il suolo giapponese. Ma l’imperatore stesso gli rispose che il Giappone gli era stato affidato dai suoi antenati ed era suo dovere affidarlo ai suoi discendenti: se si fosse combattuto sul suolo patrio certo il Giappone sarebbe stato distrutto, e allora lui come avrebbe potuto mantenere tale suo impegno?

Così si iniziarono ufficialmente le trattative di pace e partì il telegramma di accettazione.

Il 15 agosto l’imperatore parlò alla radio, e fu la prima volta che il popolo poté sentire la sua voce, annunciando la resa.

Perché la Russia rifiutò di fornire la sua mediazione nelle settimane precedenti? E perché, se teniamo presente la storia di Kazuo Kawai, non intervenne per chiarire agli americani (che ovviamente erano caduti senza loro colpa nell’equivoco del mokusatsu) che i giapponesi avevano volontà di pace?

Non ci vuole molto per capire che Stalin volle far continuare la guerra finché poté entrarvi senza troppi pericoli, e certo non fu un caso se lui e Molotov tornarono a Mosca solo il giorno prima del lancio della bomba (la cui data certo conoscevano o potevano facilmente indovinare), giusto in tempo per prendere il comando per l’invasione della Manciuria, che chissà da quanto tempo era pronta e aspettava solo il via. Un’operazione militare come quella (un milione e mezzo di soldati, 5000 carri armati) non si improvvisa in pochi giorni.

E, alla fine di tutto, la posizione sovietica in Estremo Oriente finì con l’essere molto più forte e determinante di quanto sarebbe mai stata, con qualunque patto il Giappone avesse potuto accettare in cambio della famosa mediazione che non ci fu.

 

 

 

3 commenti

  1. Grazie di averci raccontato questa parte della storia che non conoscevamo.

  2. Mi accodo: sintetico seppur completo e ben esposto.

  3. Interessante! Dove hai raccolto le fonti?

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