IL MONDO ROBOTICO-INDUSTRIALE DI PATLABOR

IL MONDO ROBOTICO-INDUSTRIALE DI PATLABOR

Sono ritornato agli anni novanta, gli anni di Patlabor.
Sono in piena manga fever, alla riscoperta di letture che, per motivi di budget, ai tempi in cui ero un membro familiare economicamente passivo, dovevo eliminare dalla wishlist… per forza di cose.


Ora che, ringraziando il cielo, sono economicamente un attimino più agiato e indipendente, posso permettermi atti di compulsione su ebay e in giro per fumetterie. Ultimamente, mentre voi vi riempite le mensole di Lemire, ho fatto un po’ di recuperi e, tra queste sortite che hanno l’equivalente delle spedizioni delle donne nei centri commerciali in periodo di saldi, c’è stato quello di Patlabor di Masami Yuki: una serie pubblicata anni fa dalla Star Comics. Interrotta all’epoca per i motivi di cui sopra, ho completato la serie con molta calma. Per via della sua assoluta appetibilità, Patlabor ha inevitabilmente monopolizzato le ore dedicate alla lettura di questi giorni.

I giapponesi lo fanno meglio
Era il 1988, quando il giovane Masami Yuki decise di scrivere un manga che rivoluzionasse il genere robotico.
Nella saga di Gundam di Yoshiyuki Tomino, del 1979, c’era già stato un primo balzo evolutivo nelle trame. In tutte le incarnazioni di Gundam avevano reso i robot realistici, facendoli diventare prodotti di serie di una tecnologia avanzata, al contrario delle precedenti elitarie macchine di Go Nagai e dei suoi successori, che restavano pezzi unici nonostante i nemici non fossero pochi e nonostante fossero semidemoliti a ogni episodio.
Se in Gundam, il robot, in accordo al concetto di Mobile Suite o Mecha, diviene un prodotto di serie come può essere un carro armato, in Patlabor, i Labor sono esoscheletri ideati per i più svariati utilizzi, da quello edile a quello di ordine pubblico (PatLabor è la fusione di patrol e labor, pattuglia e labor, termine con cui Yuki indica i robot costruiti dalle corporation per i lavori più faticosi).

Alla fine degli anni ottanta, quindi, Yuki immaginò un mondo in cui si dispone di una tecnologia capace di realizzare macchine antropomorfe guidate da uomini. Ne segue una corsa di produzione tra varie corporation degna di un romanzo di fantapolitica. Patlabor è ambientato negli anni che vanno dal 1998 al 2002: il Giappone di quel periodo è un paese in costante avanzata economica ed urbanistica. Come nazione, è sopravvissuto a un terremoto (1995) e deve fare i conti con lo scioglimento delle calotte polari che, aumentando il livello dei mari, provocano la perdita delle coste.
In Patlabor viene costantemente citato il Progetto Babylon, che tra le altre cose riguarda la costruzione di barriere e dighe per la salvaguardia delle coste giapponesi. La portata mastodontica di questi lavori ha portato un altissimo numero di industrie a ideare e costruire particolari macchine, chiamate appunto Labor, che sostanzialmente sono dei bulldozer antropomorfi capaci di fare lavori più precisi rispetto alle classiche gru.
L’incremento e la produzione di massa di questo tipo di macchine ha finito per creare nuovi tipi di crimini: un Labor può essere usato con la stessa facilità per costruire dighe o rapinare banche, e per questo motivo alla fine i governi hanno sentito l’esigenza di utilizzare i mecha anche nelle forze militari e di polizia. Patlabor, infatti, racconta le avventure di una squadra della questura di Tokio, la seconda squadra di veicoli speciali, che ha in forze due particolari Labor: gli Ingram delle industrie pesanti Shinohara, pilotati dalla tenace Noa Izumi e l’irruento Isao Ota.

Queste premesse sono il background del divertente manga, che ha la sua forza nel riuscitissimo inserimento di macchine fantascientifiche come i robot in un contesto urbano realistico e routinario, come può essere la vita di una squadra di polizia della questura di Tokio. Quello che più mi piace di questo manga è lo sviluppo della trama. Yuki non si limita a narrare una sequenza di botte tra robot: al contrario, sulla nascita di questa macchina costruisce trame dalle tematiche più vaste, che vanno dallo spionaggio industriale all’ingegneria genetica fino la condizione operaia. Ho trovato di una incredibile appetibilità la storia dello sciopero degli operai piloti di labor, intessuta con fili di ironia tipica del Sol levante, una zona in cui il fumetto è sempre stato una forma d’arte che rappresenta gli usi e i costumi nazionali, condizione narrativa che traspare nella caratterizzazione dei personaggi, del loro modus vivendi, del loro rapporto con il prossimo e il lavoro.


Decostruzionismo robotizzato
Parliamo sempre del decostruzionismo degli eroi in calzamaglia, ma del decostruzionismo dei super-robot non ne parla nessuno?
Oltre la saga del Gundam di Tomino, un altro autore che aveva accennato a una rivoluzione del genere fu Hajime Yatate che un anno dopo, nel 1980, in Trider G7 accennò per la prima volta a una originale soluzione narrativa: introduceva il concetto di costi di gestione di un super robot.
Indimenticabili i siparietti in cui Watta Takeo, l’immancabile adolescente pilota, era sgridato dal vicepresidente della compagnia, Kakikoji, a causa delle spese sostenute durante le missioni: carburante, missili, usura, danni… Insomma, un vero e proprio commercialista che non mancava mai in nessun episodio della serie animata.

 

Yuki, come ho detto, inserisce i Mecha nel contesto quotidiano della vita di Tokio, facendoli diventare un normalissimo aspetto della vita del suo mondo.
Nelle storie di Patlabor ci sono elementi che indirizzano le storie verso i più svariati temi, per esempio le proteste sindacali degli operai, preoccupati che le multinazionali sviluppino un sistema operativo in grado di tagliarli fuori dalla cabina di pilotaggio rendendo, così, i labor autonomi e indipendenti dall’uomo, con conseguenti tagli sulla spesa della manodopera umana.
Un lungo arco narrativo vede i labor di seconda squadra scontrarsi con un esperimento genetico sfuggito ai creatori. La storia vede protagonista la Shaft, una multinazionale con pochi scrupoli che ricorda la compagnia Roxxon della Marvel o la Lexcorp della Dc Comics. Il capo ufficio della sezione 7 della Shaft, Utsumi, sembra non avere alcuno scrupolo per raggiungere i suoi scopi.
Anche le varie parentesi di guerriglia urbana a suon di robo-sberle servono per coinvolgere il lettore, grazie alla perfetta caratterizzazione dei personaggi di cui non è difficile innamorarsi: Uozumi, Ota e il loro team di supporto, come il trasandato Goto (caposezione con doti intuitive che farebbero invidia all’ispettore Auguste Dupin di Poe).
Patlabor è del 1988, ma ancora oggi è avanti anni luce rispetto alla produzione fumettistica italiana. C’è un approccio al media che da noi, se non è estinto, latita da decenni. Nulla di strano se alla fine degli anni ottanta gli eroi in calzamaglia e quelli bonelliani si sono visti contrastare le vendite dai manga.

La versione animata di Patlabor


Se amate i mecha e la fantapolitica, Patlabor è il fumetto che fa per voi. Gli appassionati di fumetti nipponici possono andare tranquilli sulla sua originalità. La società giapponese è riportata con una naturalezza disarmante, che arricchisce la lettura e che fa la differenza, contro la monotona mediocrità di altri fumetti.
Graficamente, Masami Yuki è bravissimo. Capace di disegnare tavole drammatiche con la stessa padronanza con cui disegna situazioni più scanzonate e comiche. Il suo design dei mecha è una gioia per gli occhi e il dinamismo delle illustrazioni non ha nulla da invidiare ai colleghi mangaka.
Senza spoilerarvi un solo tankobon, mi sento di consigliarvi il recupero dei 22 albetti editi da Star Comics alla fine degli anni novanta, che, insieme a “Ghost in the shell” di Masamune Shirow, rappresentano una tappa fondamentale nello sviluppo dei manga robotici.

Patlabor ha avuto una serie animata televisiva e diversi film:

 

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